Rovigo, 17 marzo 2011 - Il Polesine è la terra dei fiumi. E i fiumi, si sa, segnano i confini. Il Po, fin dai tempi degli Estensi, ha costituito sempre protezione e frontiera. Così, quando, il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia, il Polesine e il Veneto restavano in mano agli austriaci, di là dal Po. E c’era voluta un’altra guerra per arrivare all’unità reale del paese. E difatti, con il precipitare degli eventi bellici, gli austriaci cominciarono a organizzarsi e fortificare i punti nevralgici del territorio, mentre i comitati segreti di liberazione polesani erano diventati attivissimi. Nel 1862, Rovigo fu dotata di quattro forti in calcestruzzo: a Sarzano e Borsea, Roverdicrè e Boara.

Si trattava di costruzioni poligonali con ventidue lati, che terminavano a forma di cono e che erano dotate ciascuna di trentadue cannoni (a Boara però ce n’erano addirittura quarantaquattro), chiudendo così la città in una morsa difficilmenbte espugnabile. L’ imperatore Francesco Giuseppe era venuto di persona e segretamente a verificarne la eventuale tenuta. Ma alla fine, lo scontro tra l’esercito austriaco e quello italo-piemontese non c’era stato. Invece di affrontare le otto divisioni dell’esercito guidate dal generale Cialdini che nella tarda primavera del 1866 si erano attestate sulla riva destra del Po, gli austriaci avevano preferito andarsene, quasi d’improvviso, facendo saltare in aria i ponti sull’Adige e sul Canalbianco e i punti nevralgici del poderoso sistema di fortificazione che era stato allestito con grande sforzo e grande spesa (con lo spostasmento d’aria per la grande esplosione era crollato il tetto della Rotonda e addirittura una villa settecentesca in Tassina).

Così, il 9 luglio 1866, l’imperial Regio Delegato Dolfin aveva consegnato le chiavi di Rovigo e nei giorni seguenti erano passate le truppe di Cialdini dirette verso il padovano. Senza colpo ferire, il Polesine si trovava liberato da una occupazione durata oltre cinquanta anni. L’arrivo delle truppe italiane era stato preceduto, alle tre e mezza del pomeriggio del 10 luglio 1866, da un drappello di cavalleria guidato da un capitano, che si era assicurato della situazione, passando in mezzo a un folla in tripudiante, con campane che suonavano a festa e bandiere e lini bianchi che sventolavano alle finestre.

«Quale avvicendamento di fatti e di cose! - scriveva Nicolò Biscaccia - Nella notte del 9 luglio, angustie, tristezze, trepidazioni, nel giorno 10, bando, feste, imbandieramento di un popolo lieto e tranquillo, senza una parola di onta in aggravio di quei disgraziati, che traviati nel cuore e nella mente erano i nemici della unità italiana, e di questa benedetta patria comune». Grande la festa e immediato il ritorno a una città di mezzo secolo prima, che nessuno ormai più ricordava. Un sintomo preciso, lo offre lo storico albergo Granatiere lungo quella che allora si chiamava riviera Adigetto. In origine, l’insegna recava l’immagine di un granatiere austriaco in divisa bianca. Nelle poche ore trascorse dalla partenza degli austriaci all’arrivo delle truppe italiane, qualcuno aveva pensato bene di ritoccare con colori e pennello l’insegna, così che il granatiere austriaco era diventato un granatiere italiano, salvando, oltre che la faccia, l’afflusso della clientela.

Era andata male, invece, a un vecchio locale un po’ osteria, un po’ liquoreria e un po’ trattoria, ubicata nella stretta via che oggi corre dietro la pescheria. Aveva conosciuto giorni radiosi quando era frequentata esclusivamente da ufficiali austriaci. Austriaco o austriacante era forse l’oste, visto che serviva solamente quel genere di clienti. Dopo il 1866, andati via definitivamente gli austriaci, quell’osteria conobbe una progressiva e fatale decadenza, fino a scomparire per sempre. L’11 luglio era già formata la prima giunta provvisoria, il 22 giungeva il Regio Commissario Antonio Allievi e alla fine del mese lo stesso Vittorio Emanuele II visitava la città.