Italia in prima pagina, campioni del mondo nel 1982

La pipa del Pertini e l’urlo di Tardelli, il Carlino del 12 luglio 1982

L’urlo di Tardelli

L’urlo di Tardelli

Bologna, 29 novembvre 2015 - IL PARAGONE con il Mondiale tedesco del 2006 è di rigore. Anche allora, come in questo ’82, eravamo una nazionale sfregiata dagli scandali (calciopoli), affidata a un allenatore molto controverso e a giocatori per molti non più affidabili. Entrambi ci laurearono campioni, ma i confronti si fermano qui. Perché nel 2006 non c’era più l’irreprensibile Nando Martellini, con il suo ‘Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!’ gridato a fine telecronaca. E poi perché, ribadita l’inarrivabile classe di uomini come Zoff, Scirea, Cabrini, Tardelli, Antognoni, Oriali, Collovati, il campionato del 1982, distribuito in 14 città spagnole, segnò l’atto di nascita del marketing sportivo, del grande calcio (mancavano Uruguay e Olanda, però) come business. Un’evoluzione determinata in primis dall’introduzione della fase finale a gironi, con 24 squadre in gara, molte di più che in passato. Dopo di che, lo show che ha fatto girare un fatturato di 4mila miliardi è stato il primo di cui la Fifa ha affidato l’intera gestione al paese ospitante, con grande gioia delle multinazionali interessate, dalla Canon alla Coca Cola. Ovvio, così, l’aumento dei prezzi (e dei profitti) per accedere ai vari aspetti della manifestazione. Proteste da parte di molti clienti nei confronti dell’onnipotente Raimundo Saporta, presidente del comitato organizzatore. L’esclusiva del pacchetto turistico viene concessa per 2 miliardi a un pool di 4 agenzie di viaggio (denunciati nell’insieme per truffa da altre società private). Per piazzare 2 cartelloni pubblicitari vicino alle porte bisogna sborsare 370mila dollari. Sono anche i Mondiali dell’Auditel: 31 milioni di italiani hanno visto la partita con il Brasile, 27 Italia-Argentina. La sera della finale 38 milioni di spettatori. Il che significa che solo otto milioni di italiani non si sono messi davanti ai teleschermi. Alla fine, i conti tornano per chi li ha orchestrati: 84 miliardi spesi, 145 incassati. E bravo mister Saporta.

 

UNA VITTORIA inattesa moltiplica la gioia di chi la ottiene. Lo dicono il buon senso e la storia. La battaglia delle Termopili, per esempio, dove nel 480 avanti Cristo una piccola forza di soldati greci bloccò l’avanzata dei persiani. Se poi, come nel caso del trionfo azzurro ai mondiali dell’82, allo sfavore del pronostico si aggiunge, già nelle settimane precedenti la spedizione in Spagna, un clima di veleni e giudizi catastrofistici sulla nazionale guidata da Enzo Bearzot, allora il successo finale - 11 luglio, 3 a 1 alla Germania - assume i toni dell’impresa. Cominciamo, per capirci qualcosa, dall’opinione del radiocronista dell’incontro decisivo (con Sandro Ciotti), Enrico Ameri, commentatore al solito equilibrato e puntuale: «Come tecnico Bearzot è sempre stato un modesto, come selezionatore della nostra Nazionale lo giudico uno sprovveduto, un avventurato. Talvolta, lo sapete, alla modestia si accoppia la fortuna ed è questa la speranza che ci resta parlando di Enzo Bearzot».

UN’INCHIESTA del ‘Mixer’ di Minoli valuta che solo un quarto degli italiani è favorevole alla Nazionale e al tecnico friulano che la guida, allora 55enne, scomparso nel 2010. E sì che Bearzot aveva portato l’Italia al 4° posto nel mondiale di Argentina. Niente male, volendo. Per sopra mercato, e per cercare di ritrarre l’isterismo generale, di giornalisti e tifosi, a Roma, prima della partenza, una ragazza fanatica di Beccalossi, il fantasista dell’Inter escluso dalle convocazioni, avvicina il nostro tecnico e gli appioppa un ceffone, urlandogli in faccia: «Bastardo! Scimmione!». E lui, senza scomporsi troppo, com’è nel suo carattere: «Come ti permetti? Potrei essere tuo padre...». L’esclusione di Beccalossi è solo una delle mine del percorso. Altre ce ne sono. A casa Pruzzo, il capocannoniere del campionato ma non bearzottiano doc. Si è poi insistito troppo a lungo nel tentare di convincere Bettega che declina l’invito, a essere della partita; poi c’è l’azzardo di Paolo Rossi, che ha ritrovato il campo con la Juventus dopo due anni di squalifica per lo scandalo del calcio scommesse. I pronostici neri fioccano. Tre campioni del calibro di Vinicio, Del Sol e Sivori non concedono chance agli azzurri, e ricordano che il Brasile - da noi sconfitto in un’esaltante semifinale - è di un altro pianeta. Strada sbarrata, insomma, e anche con poco o nessun onore, stando alle previsioni. «Mai un’azione di prima come la intendo io, sempre a stoppare, a litigare con la palla... Il nostro è il peggior calcio del mondo, sotto di noi non c’è nessuno», tuona dopo le prime gare l’attore Carmelo Bene, che non si intendeva solo di Dante e Shakespeare. Non ci fosse Gianni Brera, a ricordare al popolo che la nazionale è squadra femmina, portata quindi a subire e a colpire in contropiede, crederemmo davvero che il mondo del pallone si sia rovesciato, e che Zico, Junior e Falcao indossino la maglia azzurra, non il giallo-oro del superfavorito Brasile.

L’AVVIO SUL TERRENO è degno delle peggiori profezie. Zero a zero il 14 giugno con la Polonia, 1 a 1 con il Perù il 18, stesso e stentato risultato con il Camerun il 23. Passiamo il girone per il rottissimo della cuffia. Sul ritiro della Casa del Baron di Pontevedra, nei pressi di Vigo, sede delle nostre prime figuracce, trasformato in un bunker dai 120 agenti che vigilano (anche i tiratori scelti) contro le intenzioni terroristiche dei separatisti dell’Eta, cala il buio pesto. Paolo Rossi è nel mirino: «E’ un fantasma. Farlo giocare è una bestemmia». A peggiorare il clima, il presidente della Federcalcio Sordillo. Dopo lo squallido inizio, annuncia pubblicamente: «Se l’Italia è questa, torneremo subito a casa». I titoli dei giornali calcano la mano e i toni. Che, sia permessa una parentesi, sono più o meno gli stessi della situazione politica. Pesante. Allarmante.

IL 23 AGOSTO del 1982 cade il primo governo Spadolini. Il 17 dicembre del 1981 viene sequestrato il generale della Nato James Lee Dozier. Nell’aprile dell’82 si apre il primo processo alle Br per il delitto Moro. La crisi economica avanza. Nel mondo, Israele invade il Libano meridionale, la P2 infuria (viene ritrovato a Londra il cadavere del banchiere Roberto Calvi), il generale Dalla Chiesa e la moglie sono assassinati dalla mafia a Palermo. E’ come se l’Italia del pallone e quella della politica si intrecciassero sotto un unico cielo ostile. Poi, in Spagna, la svolta. Inattesa come s’è detto, e quindi più gioiosa. Per proseguire dobbiamo affrontare un girone della morte: l’Argentina campione e il favoloso Brasile e di nuovo la Polonia. Li stendiamo tutti e tre. Il ‘Carlino’ del 4 luglio, vigilia della semifinale decisiva, titola così a tutte colonne: «Ci vuole un bel coraggio per battere il Brasile». Si sa come andò. Coraggio dei tre gol di Rossi. Delle parate del quarantenne Zoff. Coraggio della difesa costruita sulla Juve. Al Sarrià di Barcellona Rossi diventa una leggenda planetaria. Il selezionatore carioca Telé Santana è annichilito. Con la Germania in finale il miracolo si ripete, questa volta a Madrid, sotto gli occhi di Sandro Pertini, del re di Spagna Juan Carlos e della regina Sofia, oltre che del cancelliere tedesco Helmut Schmidt, che alla fine, dirà il nostro presidente, «aveva la faccia di un cane bastonato». Qualche fila indietro, Henry Kissinger.

AL SANTIAGO BERNABEU Rossi apre le marcature e Altobelli le conclude, prima che Breitner segni il tiro della bandiera. Finisce in tripudio. I giocatori alzano Bearzot in trionfo. Il portierone Dino, capitano, riceve la Coppa dal re. E’ il terzo mondiale azzurro. Ma il gioiello della serata è quella fantasmagorica combinazione Scirea-Tardelli che porta quest’ultimo all’urlo liberatorio. Com’era accaduto? Il permesso di vedere le mogli? O il premio multimilionario promesso? O il 18enne Bergomi che annullò il lupo Rummenigge? O la decisione del silenzio stampa, chiesto dalla squadra oppressa dalle polemiche dei giornali e dai gossip, come la voce di una ‘affettuosa amicizia’ tra i compagni di camera Cabrini e Rossi? Spiegazione unica non c’è. Il calcio sa essere un mistero gaudioso contro tutto e tutti. La sua icona: Pertini e Bearzot, riposte le tradizionali pipe, che fanno uno scopone con Zoff e Causio sul DC9 del ritorno. Non una foto di famiglia, non un inno al buon paternalismo pertiniano. Ma, senza ombra di dubbio, uno dei più indelebili quadri del ‘900. Fateci caso, dentro c’è l’aura dell’impossibile realizzato. Sulla terra, anzi sui campi della sperduta Galizia e di una Madrid di colpo torrida. Non solo per il luglio.