
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella foto iconica della loro amicizia
“La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Giovanni Falcone pronunciò queste parole nel 1991, un anno prima di morire. Lui, il giudice istruttore che ha ispirato generazioni di magistrati, pensava davvero che prima o poi lo Stato avrebbe sconfitto Cosa Nostra, a patto di “impegnare in questa battaglia le forze migliori delle istituzioni”. Falcone era una di queste “forze migliori”, così come lo era Paolo Borsellino, l’amico e collega che con lui aveva condiviso le fatiche del maxi-processo. Per la prima volta centinaia di boss e gregari erano stati condannati ma, soprattutto, era stato sancito che Cosa Nostra era una struttura unitaria e verticistica diretta dalla cupola, secondo il famoso ’teorema Buscetta’. In qualunque altro Paese Falcone, dopo questo successo, sarebbe stato messo al vertice della lotta alla mafia. Accadde invece il contrario: un anonimo magistrato gli fu preferito come capo dell’Ufficio istruzione di Palermo. Falcone, bersaglio di invidie e diffidenza (anche dei colleghi), scelse di andare a lavorare a Roma, con il ministro della Giustizia Claudio Martelli. “Si muore quando si è lasciati soli”, disse poco prima di morire. Il 23 maggio 1992 una bomba piazzata dai mafiosi di Totò Riina fece saltare la sua auto a Capaci,. Morirono lui, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Il 19 luglio, in via D’Amelio, un’altra bomba ammazzò Paolo Borsellino. Lo Stato non aveva protetto i suoi uomini migliori. Proprio dopo quelle morti, però, la lotta alla mafia ebbe una svolta, a partire dal carcere duro. Le idee di Falcone e Borsellino camminano ancora fra noi.