
Il monsignore: Vangelo e giornale, per vivere la fede va conosciuta la realtà che ci circonda "I miei 11 anni in Diocesi? Gioia spirituale, comprensione dei miei limiti e... mal di fegato".
Sua Eccellenza monsignor Marconi, su una mano il Vangelo e nell’altra il giornale: quanto c’è di vero nella frase del teologo Karl Barth?
"È vero – risponde il vescovo di Macerata – che, per vivere la fede cristiana, fede in un Dio incarnato, è necessario avere una vera conoscenza della realtà che ci circonda, per questo serve il giornale. Ma è necessario anche conoscere il punto di vista di Dio sul mondo e la storia, per questo serve il Vangelo. L’importante è tenere ben distinti questi due strumenti, perché: né il giornale è un Vangelo, ma è sempre solo un’opinione umana, competente ma criticabile. Né il Vangelo è un giornale, cioè una parola immediatamente applicabile all’oggi e scritta nel linguaggio di oggi, ma è un testo di duemila anni fa, che ha bisogno dell’interpretazione di tutta la sapienza della Chiesa per essere ben compreso".
Cosa cerca ogni giorno nelle pagine del quotidiano?
"Lo uso per cercare di comprendere ciò che accade e soprattutto perché accade. Per me leggere il giornale è soprattutto leggere la rassegna stampa, perché senza voler offendere nessuno un giornale da solo non basta mai a comprendere la realtà".
Lei nel 2014 è stato nominato vescovo di Macerata, cosa le hanno dato questi 11 anni?
"Soprattutto tre cose: gioia spirituale, una comprensione molto più chiara dei miei limiti e il peggioramento del mal di fegato. D’altra parte, parlando con tanti altri amici vescovi, vedo che questa esperienza è molto comune. Comunque, c’è un modo di dire maceratese che mi piace citare, ma preferisco farlo in italiano: “Se guardo la mia Diocesi un po’ mi deprimo, ma quando la confronto con le altre mi sento fortunato“".
Quali sono le emergenze nella diocesi lamentate dai fedeli?
"Spesso mi confronto con la fatica da parte delle persone più anziane e nel nostro territorio e soprattutto nelle nostre parrocchie sono la maggioranza, di accettare che il mondo cambi. Tutti vorrebbero il mondo della loro infanzia, le parrocchie della loro infanzia e i preti della loro infanzia. Quello che posso solo dire è che non sono in grado né di fermare la storia né tantomeno di farla tornare indietro, ma anche se sembra una cosa molto logica è difficile farla accettare".
Quante sono ancora le chiese chiuse per le ferite del terremoto?
"Globalmente, stiamo portando avanti una settantina di cantieri. I primi sono terminati. La gran parte dei progetti sono stati presentati all’Ufficio speciale per la ricostruzione, alcuni sono già in via di realizzazione. Solo gli ultimi sono ancora in uno stadio di perfezionamento della progettazione. Soprattutto nell’ultimo anno è innegabile che ci sia stato un salto di qualità positivo nel modo di interagire tra l’USR, la Soprintendenza e le Diocesi. La gente di Macerata si lamenta che dovunque volge lo sguardo ci sono cantieri. Capisco che questo possa rendere complicata la vita quotidiana, ma è una bella complicazione e una grande possibilità di sviluppo futuro per il nostro territorio".
È evidente il calo di presenze alla messa e il minor numero di matrimoni celebrati in chiesa. Lei scorge altri segni, magari meno tangibili, che aprono il cuore alla speranza di una fede che si rinnova?
"Il cammino della fede scorre sui tempi lunghi e vive fin dalle sue origini l’alternarsi di tempi di passione e purificazione, con tempi di resurrezione e di diffusione della fede. Quando la fede è un fenomeno soprattutto di tradizione e di massa, si corre il rischio di incidere poco nella conversione delle persone e delle società. Quando invece la fede si purifica nella fatica, a volte nella persecuzione, e nella bellezza di una testimonianza minoritaria, ma che affascina, allora la fede incide di più nella vita delle persone e delle società. Non bisogna aver paura dei tempi di purificazione, quando la fede non va di moda e non è un fenomeno di massa, sono anche questi tempi preziosi".
Come è possibile recuperare il "noi" a un "io" che sta dominando, con la gente che preferisce parlare con il telefono o scambiarsi messaggi piuttosto che incontrarsi?
"Uno dei fenomeni della modernità è proprio la crescita dell’individualismo e la preponderanza nella rivendicazione dei diritti civili e della libertà dell’individuo rispetto alla costruzione comune e al riconoscimento dei diritti e dei doveri sociali. Anche questo è un passaggio abbastanza ciclico nella storia delle civiltà umane. Senza arrendersi a ciò che accade, l’impegno per contrastare una deriva individualistica, che ribadisce diritti e libertà, dimenticando doveri e socialità è importante. Bisogna soprattutto impegnarsi nell’opera educativa delle giovani generazioni. Vari psicologi e pedagogisti denunciano oggi la mancanza di famiglie coese e genitori autorevoli, vedono in questo l’origine di una evidente fragilità educativa dei nostri tempi. Da qui bisogna ripartire. Non si può delegare del tutto alla scuola o anche alla Chiesa un lavoro che primariamente va fatto da parte dei genitori e delle famiglie. Tutti dobbiamo essere alleati nell’impresa dell’educazione dei giovani".