
Martina Capriotti è una biologa marina che studia la salute delle acque e il nostro impatto sugli ecosistemi: gli ultimi due progetti con il National Geographic in Groenlandia e in Sicilia.
"Possiamo proteggere solo ciò che conosciamo". Intorno a questo assunto ruota l’impegno di chi si batte per l’ambiente, in particolare per invertire la drammatica rotta che ha intrapreso il surriscaldamento del pianeta. Un problema noto dagli anni ’70, ma che negli ultimi venti ha iniziato a mostrare il suo lato feroce anche alle nostre latitudini: il Mediterraneo, essendo un sistema chiuso, si scalda a una velocità del venti per cento superiore rispetto a quanto accade ad esempio agli oceani. Ancora peggio va per il povero mare Adriatico, che ha raggiunto e superato, purtroppo, i 30 gradi per periodi anche prolungati. Difficile svegliare le coscienze di fronte a un problema così enorme, che sembra irrisolvibile. Necessario però mettere in campo azioni pratiche, visto che dal mare dipende la nostra salute e la nostra sopravvivenza. Ricordando sempre che nulla è perduto, grazie alla straordinaria forza di reazione della natura.
In prima linea troviamo Martina Capriotti, biologa sambenedettese, che grazie alla subacquea si è innamorata del mondo marino e ha deciso di focalizzare la sua ricerca sull’impatto umano ai danni della vita marina: la scelta quando immergendosi tra un banco di pesci ha visto una scogliera disseminata di rifiuti.
Dottoressa Capriotti, a che punto è con le sue ricerche?
"Sono appena tornata da Washington per due progetti con il National Geographic, uno in Groenlandia e uno che coinvolge due isole italiane, Pantelleria e Lampedusa. Entrambi hanno a che fare con le microplastiche nei mari ed entrambe hanno voluto però raccontare l’ambiente dal punto di vista degli abitanti".
Può dirci di più?
"In tutti e due i progetti abbiamo ascoltato chi in quelle isole vive. Nel caso della Groenlandia, in questo momento, chiaramente i fattori geopolitici sono al centro del dibattito (dopo le uscite del presidente Usa Trump sulla volontà di annettere il territorio danese, ndr) e questo impatta sul rapporto che hanno le persone con la natura che li circonda. Mi ha colpito come anche nella pesca seguano un rispetto dell’ambiente che parte da lontano, perché sanno, ad esempio, che se pescano troppo ci sarà sempre meno pesce. Si cibano di quanto offerto dalla natura ma con profondo rispetto, un rispetto che in parte viene da tradizioni antichissime, tramandate nelle generazioni. Siamo stati a bordo di una nave del National Geographic per mappare la presenza di contaminanti ambientali lungo la costa".
E sul fronte italiano?
"Si tratta di un progetto più importante, 15 esploratori di National Geographic italiani tra ricercatori, professori universitari, educatori, e anche un fotografo per mettere insieme ricerca ed educazione: abbiamo coinvolto i ragazzi delle scuole, in un territorio dove davvero gli spostamenti sono difficili e ci si sente lontani dal mondo. Lì la scoperta è stata l’attenzione che hanno i più giovani per l’ecosistema e la facilità con cui apprendono nozioni importanti sulla conservazione dell’ambiente: abbiamo insegnato loro a fare campionamenti e ricerche, lasciandogli anche dei kit per continuare i monitoraggi in futuro. Le foto poi sono state esposte nei musei delle isole e anche nella mia San Benedetto".
No alla pesca intensiva, coinvolgere le nuove generazioni, ascolto delle necessità delle popolazioni: tre azioni fondamentali perché la lotta a preservare l’ecosistema marino, e quindi la salute del pianeta, diventi battaglia di tutti.
"Sì, il primo passo è far conoscere quello che c’è sotto il livello del mare. Quando le persone si rendono conto della fragilità, e soprattutto della bellezza, dei propri ecosistemi, cambiano atteggiamento, si sentono coinvolte in prima persona. Come sa mi occupo di microplastiche e in questi anni abbiamo campionato le cozze: nei loro tessuti accumulano contaminanti, infatti sono delle sentinelle dello stato della salute del mare".
E come stanno i nostri mari?
"Purtroppo non bene. Le cozze hanno dimostrato che lo stress climatico è un elemento nocivo, che ha portato alla morìa in Adriatico. Una delle ultime ondate di calore, per capirci, ha provocato una temperatura del mare Adriatico per 41 giorni superiori ai 30 gradi, praticamente un mare tropicale. Le cozze si ripopolano durante l’inverno e la primavera, tanto che ora i nostri scogli sono coperti di piccoli mitili. Ma poi d’estate muoiono, per la temperatura del mare che diventa troppo alta a causa del cambiamento climatico".
Siamo già fuori tempo massimo? O possiamo ancora frenare gli effetti della crisi climatica?
"I danni sono enormi e li vediamo tutti. Ma non dobbiamo fare l’errore di pensare che tutto sia perduto. Intanto perché basterebbe che cambiassimo le nostre abitudini e il nostro stile di vita di poco. Ad esempio nella pesca c’è uno spreco enorme a livello di quantitativi pescati, quindi anche di energia, forza lavoro etc. Già diminuire l’alimentazione animale porterebbe benifici imporantissimi in termini di climate change e anche di salute. E poi dobbiamo fidarci della natura e della sua incredibile resistenza. La sua capacità di rinascere nonostante il nostro impatto, lascia senza fiato".
Eleonora Grossi