Bob Morse, il gioiello di Varese

Ha fatto parte di un gruppo che fu capace di conquistare 10 finali consecutive di Coppa dei Campioni, dal 1970 al 1979, riportando a Masnago ben quattro trofei. Giocò a Reggio prima del ritiro

Bob Morse

Bob Morse

Per approfondire:

C’è una sola parola per descrivere in modo netto, preciso e sintetico Bob Morse: fenomenale. Serve per capire l’impatto che l’ex biondino di Pennsylvania, oggi settantenne, ha avuto a Varese, nel campionato italiano e, più in generale, in Europa, avendo fatto parte di quel gruppo, irripetibile, che fu capace di conquistare 10 - sì, proprio 10, avete letto bene - finali consecutive di Coppa dei Campioni, dal 1970 al 1979, riportando a Masnago ben quattro trofei.

Fenomenale Bob Morse, perché grazie a lui la favola di Varese sconfina ai limiti della leggenda. Eppure non tutto comincia nel migliore dei modi per il “tenentino”. Lo chiamano così perché con il portamento fiero, il taglio dei capelli, sembra appena uscito dall’accademia militare di West Point. E del resto, se attira subito le simpatie di Aza Nikolic, così rigoroso e così determinato in palestra, deve avere qualcosa di marziale nel suo  aspetto.


La frase
  • contro la Fortitudo Bologna: cominciai malissimo
  • sbagliando facili conclusioni
  • I tifosi cantavano Manuel-Manuel
  • Nella ripresa infilai 10 tiri di fila
  • e chiusi con 45 punti
  • Vincemmo e conquistai il pubblico

Dopo quattro anni all’università di Pennsylvania, il biologo Morse, siamo nel 1972, viene scelto al terzo giro Nba dai Buffalo Braves. In merito al mancato approdo nella Nba vengono accreditate due versioni. La prima è che sia troppo lento per i parametri dei professionisti e che, per questo, venga scartato. La seconda, più plausibile e alla quale crediamo di più, è che il mondo dei professionisti americani non sia il massimo per uno giovane con l’indole di Bob Morse. Troppe partite, troppi voli aerei. Troppa frenesia, poca possibilità di godere della compagnia della famiglia e degli amici. Un aspetto, il relax, importante per uno che, nel tempo libero, dopo qualche anno nel Varesotto, si mette davanti a un barbecue per cuocere salsicce per un raduno locale di alpini.

Il primo approccio con l’Italia non è dei migliori. Varese, che oltre allo scudetto comincia a farsi conoscere anche in Europa, è innamorata di Manuel Raga, il giocatore che, per la  straordinaria elevazione, è soprannominato il messicano volante. Raga è alto 188 centimetri, ma gioca ala e segna valanghe di punti.

Nikolic, che è uno dei padri della pallacanestro moderna, guarda lontano. Sa bene che il gap fisico può essere un fardello pesante da portare per un club come Varese che, oltre al campionato italiano, gioca in Coppa dei Campioni e deve fare i conti con i centimetri e i chili delle squadre dell’est: su tutte la terribile Armata Rossa.

Nikolic comunque chiama Bob Morse e, nel 1972, i posti per gli stranieri, nel nostro campionato, si riducono a una sola unità. Quell’unico posto sembra promesso a Manuel Raga, mentre per Bob, almeno inizialmente, si prospetta una sorta di utilizzo a gettone, come straniero di coppa.

Ma per capire il valore di Morse e di che pasta sia fatta il suo “tenentino” appena uscito da West Point, Nikolic ha in mano l’arma segreta. In palestra, al primo allenamento, chiede a Dino Meneghin di marcarlo senza pietà, utilizzando gomiti, braccia e gambe. Giocando anche un po’ sporco. Dino è già il numero uno del basket nazionale e, in difesa, non ha rivali.

Il fatto è che quel Bob Morse, troppo lento per i pro americani, non solo è una macchina da canestro, è anche un atleta elegante che sa trovare sempre la soluzione giusta per crearsi un’opportunità di tiro. Dopo un paio di ore di “trattamento Meneghin” arriva la risposta che Nikolic aspetta.

Morse e Meneghin imboccano la strada per gli spogliatoio. Il biondino non è a testa bassa, tutt’altro. Piuttosto c’è Meneghin che, senza proferire parola, allarga le braccia, quasi sconsolato.

Non servono grandi discorsi: se Meneghin allarga le braccia significa che la sua difesa e le sue malizie, almeno per una volta, non hanno funzionato.

E allora via libera, in campionato, a Bob Morse. Nikolic lo comunica alla piazza solo all’ultimo momento. E la piazza varesina non la manda giù. Varese esordisce in campionato ad Asti: Bob ne mette a segno 27. E’ il 1972, il tifo itinerante ancora non è istituzionalizzato e il pubblico varesino lo aspetta al varco a Masnago. Dall’altra parte del campo c’è la Fortitudo Bologna e l’approccio di Bob non è dei migliori. Nel primo tempo sbaglia sei tiri in fila, alcuni dei quali facili. I tifosi di casa non ci mettono tanto a intonare il coro “Manuel-Manuel”.

Quando rientra negli spogliatoi il volto di Bob è tutto fuorché il ritratto della felicità. Potrebbe essere la fine prematura di un amore mai nato. E invece nel secondo tempo, Bob infila 10 tiri consecutivi, firma 45 punti e il coro “Manuel-Manuel”, lascia spazio a “Bob-Bob”.

Morse conquista i nuovi tifosi e, Nikolic, lo si capirà presto, ha visto giusto ancora una volta.

In tre stagioni, dal 1972 al 1975, Bob vince tutto: scudetti, Coppa dei Campioni, titoli di miglior marcatore. E, nell’estate del 1975, chiusa, almeno in apparenza, l’esperienza varesina, decide di tornare in patria con la moglie Jane (che le darà due figlie, Jennifer e Amanda). Il rientro negli States, per un americano anomalo - evita la Coca Cola e preferisce il vino, magari un rosso del Varesotto - è legata alla voglia di studiare di Bob. Dopo la laurea in biologia, ottenuta nel quadriennio 1968-1972, ha l’idea di proseguire il percorso accademico, diventando medico.

L’avventura varesina sembra al capolinea fino a quando… Fino a quando Varese capisce che non può rinunciare al suo numero 9: torna alla carica e lo convince a rientrare. Proponendogli non solo un contratto principesco e lungo - un quinquennale -, ma anche il sostegno per continuare gli studi in Italia. Tanto Bob, che è profondamente integrato nella realtà italiana, la nostra lingua la parla bene.

Il piano riesce così bene da avere un rendimento simile tra sport e studio. Se in campionato e in coppa, spesso e volentieri, Bob supera quota 30 (punti). Sui banchi dell’università - è iscritto a veterinaria - si dimostra altrettanto abile come nelle uscite dai blocchi: 28 (trentesimi) la media dei suoi esami.

Gli unici avversari, in quegli anni, che lo mettono in difficoltà, sono Tom McMillen, Renzo Bariviera e Jim McMillian. Lui, nel frattempo, continua a segnare una valanga di punti confermandosi cannoniere principe del campionato nel 1973, 1974, 1975, 1979 e 1980. Nel 1981 forse la scelta più dolorosa. Lascia Varese perché Antibes, club del campionato francese, gli offre un ottimo ingaggio e la possibilità di affrontare un torneo meno stressante in una collocazione, per di più, da favola. Tre anni dopo, però, il richiamo dell’Italia è troppo forte. E per uno che è stato capace di segnare anche 62 punti in un singolo incontro - e il tiro da tre ancora non c’è -, l’obiettivo è superare quota diecimila punti (si ferma, in serie A, restando per anni il migliore, a quota 9.785). Dopo i quattro scudetti, le tre Coppe dei Campioni e una Coppa delle Coppe, una Coppa Italia e una Coppa Intercontinentale sempre con la maglia di Varese, Bob accetta l’offerta delle Riunite di Reggio Emilia. Altre due stagioni da protagonista, poi il ritiro.

Resta in qualche modo legato al nostro paese, perché si imbarca nella promozione di una lega di giocatori alti al massimo 195 centimetri e si propone come telecronista perché la pallacanestro e la lingua italiana per lui non hanno segreti.

E fa sorridere, oggi, il tributo che gli concede il Comune di Varese. Fa sorridere, meglio chiarire, non per il riconoscimento in se (più che meritato), ma perché appare impossibile, pensando al basket del terzo millennio, che in futuro uno statunitense o uno straniero - che vengono cambiati a getto continuo - possa ricevere un’onorificenza del genere. Il Comune di Varese gli conferisce la cittadinanza onoraria: “Grande uomo di sport, esempio per i giovani e ambasciatore del nome di Varese con le sue imprese e i trionfi in Italia e nel mondo”.

Fino al 2016 insegna italiano e letteratura italiana - visto il legame stretto con il nostro paese - al Saint Mary’s College nell’Indiana. Arriva l’età della pensione anche per lui. Si trasferisce a Portland, dove continua a insegnare la nostra lingua nella scuola italiana della cittadina dell’Oregon.