Kresimir Cosic, l'anti Meneghin della Virtus Bologna

Non ha i suoi muscoli, né la stessa cattiveria. Eppure in due stagioni (1979, 1980) con la maglia della V nera arrivano altrettanti scudetti

Cosic conquista un rimbalzo

Cosic conquista un rimbalzo

Il più grande che abbia mai indossato la maglia della Virtus? In questi casi, di solito, si aggiunge “segue dibattito”, perché non è facile indicare chi sia stato effettivamente il più grande, pensando che, con una V nera sul petto, hanno giocato Michael Ray Sugar Richardson, dopo che era stato radiato dalla Nba. O Manu Ginobili, che nella Nba sarebbe diventato talmente grande da essere uno dei celebrati protagonisti dell’epopea San Antonio. Senza dimenticare lo sguardo vincente di Sasha Danilovic.

Nella Hall of Fame bianconera di tutti i tempi, però, Kresimir Cosic, detto Creso, ha un posto di primo piano.


La frase
  • Una squadra di basket
  • è come un cantiere
  • Ci sono i muratori
  • e ci sono gli ingegneri
  • Io sono un ingegnere

Creso nasce a Zagabria il 26 novembre 1948 e ci lascia presto, troppo presto, il 25 maggio 1995. Un’intelligenza straordinaria in un corpo, a dispetto dei 210 centimetri, normale.

Da giovane è così magro che i compagni di squadra lo chiamano Auschwitz. Eppure, anche se gli mancano i chili, la Virtus e l’avvocato Porelli lo vogliono a Bologna per fare di lui l’anti-Meneghin, alla fine degli anni Settanta centro di Varese, nonché il miglior giocatore italiano di tutti i tempi. Come chiedere al mite Clark Kent di tenere a bada l’esuberante Superman. Eppure Creso, anche senza rifugiarsi in una cabina telefonica per cambiare la propria identità, ci riesce.

E’ il 1978, Terry Driscoll, il pivot dello scudetto del 1976, ha appena lasciato il basket giocato perché ha la schiena a pezzi e Porelli lo promuove capo allenatore. Da un americano, Driscoll, con la schiena in disordine a un croato - all’epoca la Yugoslavia è ancora unita - leggermente ingobbito. Proprio così, Cosic sbarca a Bologna e, quando comincia l’inverno, gira con un cappottino color cammello che lo rende, paradossalmente, ancora più scheletrico a dispetto dell’altezza.

Non ha i muscoli di Meneghin, non ha la stessa cattiveria. Eppure in due stagioni con la maglia della Virtus arrivano altrettanti scudetti. Anche se, all’inizio, i malumori e i musi lunghi non mancano. Bologna è BasketCity, conosce tutti i segreti della pallacanestro, ma anche l’importanza dei numeri. Cosic non segna molto, non raccoglie valanghe di rimbalzi e, per di più, è tutto fuorché appariscente. Non urla, non schiaccia, non picchia. L’aspetto che lo rende unico, anche se non esiste ancora, almeno in Italia, il tiro da tre punti, è che spesso, anziché a prender botte sotto canestro, si sistema all’altezza della lunetta e, maneggiando il pallone come fosse un’arancia, lo porta a livelli irraggiungibili. Lo porta in alto e poi, quasi per magia, lo recapita al compagno più smarcato, sotto canestro. Ne sa qualcosa Pietro Generali che, non a caso, giocando al fianco di Kresimir, disputa le migliori stagioni in serie A.

Si dice che si alleni poco e che, questo, non vada giù ai compagni. Ma Cosic è un fenomeno anche quando si tratta di parlare. Un giorno, chiama al suo fianco Caglieris, il playmaker. “Vedi Charlie, per costruire una casa ci vuole un architetto e tanti muratori. Succede così anche nei canestri, Io sono l’architetto, voi i muratori”.

Tira da distanze incredibili e spesso, facendolo, muove le gambe come se si trovasse su una cyclette virtuale. Non è appariscente, ma quando conta, c’è. E’ decisivo nella zona 3-2 che Terry Driscoll, con l’appoggio dello stratega Ettore Zuccheri, vara per la Virtus. Creso si mette in punta e alza un muro.

Dietro si porta il nome di vescovo. Che non è un’etichetta né tantomeno un soprannome, ma il ruolo di missionario che gli viene effettivamente conferito. Nel 1971, molto tempo prima di arrivare a Bologna, lascia la Croazia per volare negli States. Frequenta la Brigham Young University, a Provo, nella Salt Lake Valley. La maggioranza della popolazione è mormone. E lui si converte, ricoprendo il ruolo di vescovo. All’inizio, in omaggio alla fede, non vuole giocare la domenica. Poi si piega alle logiche del professionismo e fa coincidere i due aspetti. Anche se la domenica mattina, almeno così narra la vulgata, non prende parte alla rifinitura. Si presenta in palestra solo dopo la funzione, in giacca e cravatta. E quando i compagni fanno le loro rimostranze, invocando la presenza di Cosic anche la domenica mattina, Creso li accontenta. Giacca, cravatta e scarpe da basket. Non si allena, si tiene per il campo. “Kresimir - ricorda Terry Driscoll, facendo chiarezza sull’aneddoto - era una personalità unica. Grande giocatore, campione sul campo e nella vita. Aveva un solo problema: l’orologio. Spesso era in ritardo, ma di pochi minuti, per l’allenamento, per la partenza del pullman, a tavola. Non lo faceva per cattiveria, era semplicemente così. Ne abbiamo parlato e, alla fine, gli episodi di ritardo non sono totalmente spariti, ma comunque si sono ridotti al minimo”.

A Bologna torna come allenatore, nel 1987, non raccoglie risultati secondo la sua grandezza, ma al suo fianco cresce e matura Ettore Messina. Come coach della Yugoslavia ancora unita, non ha paura nel lanciare i giovanissimi. E, dopo le fratture etniche, diventa vice ambasciatore di Croazia negli States. Avrebbe potuto regalarci ancora tanta pallacanestro - lui che rifiuta persino la chiamata dei Los Angeles Lakers -, se non giocata, almeno pensata, se non tumore non ce lo avesse portato via nel 1995.

Un grandissimo al quale, in patria, hanno dedicato statue, musei, riconoscimenti. Un oro e due argenti olimpici, mondiali ed Europei. Sempre con quel sorriso sulle labbra. Il sorriso di un personaggio unico chiamato Cosic.

​Kresimir Cosic, le foto più belle