Il signor Gino, simbolo della ripartenza

Michele

Brambilla

La mattina del 29 maggio 2012, alle nove quasi in punto, arrivò in Emilia-Romagna la seconda forte scossa: 5,8 di magnitudo. Lavoravo allora a La Stampa e fui inviato a Rovereto sul Secchia, una frazione di Novi di Modena, dove si diceva fosse morto un prete. Era vero. Don Ivan Martini, 65 anni, parroco di Santa Caterina, era entrato nella sua chiesa, gravemente danneggiata dalla scossa del 20 maggio, per recuperare una statua della Madonna alla quale teneva molto. E proprio in quel momento il tetto gli era crollato addosso.

Nel prato accanto alla chiesa c’era un tendone che don Ivan, dopo la prima scossa, aveva fatto allestire per poter celebrare la messa all’aperto, visto che la chiesa era inagibile. Gli abitanti di Rovereto si erano in gran parte rifugiati lì, quella mattina del 29 maggio, dopo la seconda scossa. Quando arrivai mi dissero che don Ivan, ormai quasi morente, era stato tirato fuori dalle macerie da un parrocchiano, Gino, un omone grande e grosso. Lo andai a cercare per farmi raccontare. "È lì, sotto il tendone, che sta cucinando la pasta al ragù per il pranzo di tutti questi sfollati", mi dissero. Lo raggiunsi e mi feci dire di don Ivan. Lui mi parlò senza mai smettere di girare gli spaghetti in un pentolone e il ragù in un altro. Erano passate due o tre ore da quando le stesse mani e le stesse braccia avevano caricato un uomo morente sul lettino di un’ambulanza. Ecco, in quell’immagine mi sembrò subito di vedere la forza di un popolo. Occhi lucidi, mani operose: perché la vita continua. Credo, anzi sono sicuro, che se dopo dieci anni tutto è ripartito, è grazie allo spirito degli emiliani-romagnoli.