La lenta rinascita di Finale Ferite mai davvero guarite

Dieci anni fa il rombo feroce della terra e la fuga nel buio tra cocci e sedie ribaltate. Il paese gioiello degli Estensi si è sgretolato, tanti i monumenti ancora ’in gabbia’

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di Stefano

Marchetti

Di quella notte ricordo il rumore. Profondo, sordo, misterioso. E poi il silenzio. Infinito, devastante. Il rombo feroce della terra, il fragore tutt’intorno, le pietre delle case e delle chiese che precipitavano, i libri che cadevano dagli scaffali, i bicchieri che si infrangevano sul pavimento. Sono nato a Finale Emilia, ci abito da sempre, e mai avrei potuto immaginare che la mia cittadina, gioiello degli Estensi, un giorno sarebbe diventata l’epicentro di un terremoto. La notte di domenica 20 maggio 2012. Dieci anni fa.

Già all’una era arrivata una prima fulminea scossa a darci un brivido. Mia madre si era svegliata di soprassalto, mi aveva chiesto di starle accanto. Mi ero tornato a coricare quasi con un presentimento. Il finimondo si è scatenato alle 4, in un minuto d’inferno. La casa era come una scatola di caramelle nelle mani di un bambino capriccioso, pareti, pavimento, soffitto, una centrifuga impazzita. "Tienimi stretta", mi ha implorato la mamma. Ci siamo abbracciati sul letto, ho chiuso gli occhi e per un attimo fuggente ho pensato – sì – che non ci sarebbe stato un domani. Poi la furia della terra si è placata un momento. "Dai, andiamo". Ho preso per mano la mamma e al buio, camminando su cocci di vetro e sedie ribaltate, abbiamo raggiunto le scale. Le ho illuminate con la torcia del telefono, e in un lampo siamo usciti di casa. La terra continuava a tremare. E noi tremavamo più di lei.

In quella notte tutta la bellezza del paese antico si è sbriciolata. La torre dell’orologio, che aveva ottocento anni, è crollata per metà, divisa in due come se il tempo si fosse spezzato, poi nel pomeriggio un’altra scossa le ha dato il colpo di grazia. Il mastio del castello estense è venuto giù, neppure le bombe della guerra lo avevano scalfito. Nel settecentesco Palazzo del Comune, con la torretta della campana civica, soltanto la statua di San Zenone è rimasta al suo posto. E tutte le chiese, gioielli di barocco e di storia, sono state squarciate. All’alba di quella domenica c’erano solo pietre, polvere, dolore, incubo. Da quella notte sono venuti altri giorni duri di scosse, di lontananza e di paura. E sono sbocciati anche tanti fiori di solidarietà, vicinanza, abbracci spontanei. Volontari da tutta Italia hanno raccolto, una per una, le pietre della torre, un’associazione piemontese ne ha rimesso in funzione l’orologio, gli Alpini hanno ricostruito la scuola di musica. Ma – lungo le settimane, i mesi, gli anni – abbiamo dovuto affrontare una faticosa ricostruzione a ostacoli, fra burocrazia, incartamenti e tante spese.

A Finale oggi tante abitazioni private sono rinate: su 821 cantieri aperti dopo il sisma, più di 700 sono stati già conclusi. E tuttavia, se venite a fare un giro, i monumenti vi raccontano ancora quella notte di dieci anni fa: della torre dei Modenesi c’è soltanto il moncone e fra le rovine del castello crescono le erbacce, il teatro Sociale è ancora chiuso e il palazzo del Comune (nella foto) è ingabbiato da transenne, così come quasi tutte le chiese. Si lavora in Duomo e si confida di riaprirlo in settembre. C’è una moderna biblioteca, un po’ in periferia, a due passi dalle scuole, e la stazione delle autocorriere rinasce in questi giorni come luogo di aggregazione, grazie alla musica e all’energia dei Rulli Frulli. Però in centro la vita fatica ancora a ripartire. Prima o poi le ferite delle pietre si possono rimarginare, ma le ferite del cuore, quelle non le guarisce nessuno. E, oggi più che allora, sento che c’è un terremoto ‘fuori’, quello che ti circonda, nelle case, nelle pietre del paese in cui vivi, e c’è un terremoto ‘dentro’, che continua a bussare in te, ti accompagna, ti ricorda chi non c’è più. E non bastano dieci anni per mandarlo via.