ELIA BIAVARDI
Sport

"Quanti bei derby. Ma mancano i giovani"

Loris Cornioli racconta fasti e rivalità. "C’erano 5mila persone per la finale dell’86’. Oggi però c’è meno pathos. E meno anima"

Loris Cornioli racconta fasti e rivalità. "C’erano 5mila persone per la finale dell’86’. Oggi però c’è meno pathos. E meno anima"

Loris Cornioli racconta fasti e rivalità. "C’erano 5mila persone per la finale dell’86’. Oggi però c’è meno pathos. E meno anima"

Dal primo calcio a Cerredolo fino alla finale del 1986, passando per panchine e rivalità incandescenti: la storia del ‘Montagna’ raccontata da chi lo ha vissuto per davvero: Loris Cornioli.

Si ricorda la sua prima partita al Torneo della Montagna?

"Eccome se me la ricordo. Era il 1962, avevo 14 anni, giocavo nei ‘ragazzini’ del Carpineti, la partita si disputava a Cerredolo. Un’emozione enorme. Io ho imparato a giocare per strada, passavo le giornate a calciare il pallone contro il muro di mio zio. Nessuno mi ha mai insegnato, ho fatto tutto da solo. Giocavo in difesa, poi sono diventato libero. Ho sempre avuto una passione smisurata per il calcio, era tutto per me".

E poi com’è andata avanti la sua avventura?

"Nel ‘64 ho esordito tra i grandi nel Torneo. Si giocava nel campo vecchio di Carpineti, dove oggi c’è l’Elettric 80. Era uno degli impianti più belli della montagna. Negli anni vennero più dirigenti di squadre importanti a vedermi. Ma ero basso e un po’ grassottello, mi presero poco sul serio. Mi dicevano ‘Se cresci una spanna, diventi un professionista’. Ma non sono mai cresciuto (ride)".

Un ricordo indelebile?

"Senza dubbio la finale del Torneo della Montagna del 1986. Giocavamo contro il Baiso, eravamo sfavoriti. Avevo 38 anni, segnammo su punizione poco prima dell’intervallo. Poi siamo rimasti in dieci e riuscimmo a mantenere la porta inviolata, soffrendo tantissimo. C’erano cinquemila persone al ’Valentino Mazzola’, sotto la Chiesa di Castelnovo Monti. Un’atmosfera incredibile. Quella è stata la mia partita della vita".

Che tipo di giocatore era?

"Di temperamento. Se avessi avuto le qualità tecniche di alcuni miei compagni, avrei fatto paura. Ma sopperivo con anticipo, uno stacco imperiale, cattiveria sportiva. Quando entravo in campo non conoscevo nessuno, nemmeno mio figlio. Le scarpe sempre pulite, lucidate. Per me il calcio era una guerra, con rispetto: mai una mano addosso, ma botte sì, eccome".

C’erano rivalità accese in quegli anni?

"Sì, e molto più di oggi. Carpineti-Valestra, Carpineti-Baiso... erano derby veri. Durante la settimana volavano gli sfottò, si mettevano cartelli nei paesi, si respirava tensione ovunque. C’erano rivalità anche tra dirigenti, che cercavano di ’soffiare’ i giocatori migliori. Il torneo allora si sentiva sulla pelle".

Ha avuto lo stesso atteggiamento anche da allenatore?

"Devo dire di sì, ero Martellante. Non mi staccavo mai dalla partita, nemmeno a casa. Finivo e mi buttavo sul divano a pensare a cosa non aveva funzionato. Era la mia ossessione. Ho perso diverse partite importanti, e bruciano ancora. Una in particolare, nell’87: sei pareggi e finimmo fuori dai girono. Non vincevamo, ma nemmeno perdevamo. Un rammarico enorme perchè speravamo di fare la tripletta dopo i titoli dell’85 e dell’86".

Cosa pensa degli ‘esterni’?

"Oggi si è un po’ snaturato. Ci sono troppe residenze fasulle, figli di nati... E mancano i giovani. Anche una volta c’erano queste scorciatoie, ma c’era anche lo zoccolo duro della squadra formato da giocatori del posto, gli stessi per cui alla fine si riempivano gli spalti. Era una gioia vedere in campo i tuoi compaesani. Oggi non è così, forse ci sono proprio pochi ragazzi".

Cosa è cambiato di più: il livello tecnico o lo spirito?

"Lo spirito, sicuramente. Il livello tecnico si è anche alzato, ma si è persa un po’ di quella rivalità autentica, quell’appartenenza che rendeva speciale ogni partita. Ora c’è meno pathos, meno anima. Prima, quando c’era un derby, lo sentivi per giorni, e ai miei tempi il torneo era un evento che univa paesi, famiglie, generazioni. Adesso è più spettacolo, meno legame."

Cosa ha rappresentato per lei il Torneo della Montagna?

"Tutto. La mia vita sportiva, oltre quella da barman, che faccio da 50 anni. Il calcio mi ha dato delle rivalse che nella vita non mi aspettavo. Mi chiamavano ’il topo’, ma sul campo mi facevo sentire".

Lei è nato il primo gennaio del 1948, anno di fondazione del Torneo. Dia un consiglio ai ragazzi che sognano di rappresentare il proprio paese.

"Che l’unico modo per affrontare certe partite è quello di sentire la maglia come una seconda pelle. Giocare a calcio è meraviglioso, ma farlo rappresentando la tua comunità lo è ancora di più. Non serve diventare professionisti, per provare sensazioni uniche".