
Le prove dei cavalli in piazza Ariostea, propedeutiche alla corsa finale che, anche quest’anno, si terrà di sera (BusinessPress)
Si può provare nostalgia per un tempo che non si è mai vissuto? Si può. Eppure sembra assurdo. Cosa può fregare a chicchessia del momento in cui Borso d’Este, nel 1471, rientrò in città non più da marchese, ma da duca, appena nominato dal pontefice a Roma? Perché si dovrebbe provare nostalgia per quell’istante? Perché, dunque, lo si dovrebbe rievocare? Lo spirito di unità che si cela dietro la storia dovrebbe essere una risposta sufficiente.
Ma non è solo questo. Nel Magnifico Corteo del Palio di Ferrara, in quello che precede le gare stesse…si rincorre soprattutto l’autenticità: una forma di realismo. Così non è più solo immaginazione o un comune fatto di nostalgia per un tempo che non si è mai vissuto: il tempo di Borso è anche il tempo del Palio e il tempo del Palio lo si vive tutti gli anni. È reale, è davanti a tutti. Questo proprio grazie ai preparativi che sottendono la manifestazione, all’impegno di contradaiole e contradaioli (davanti, ma anche dietro le quinte), che costruiscono ogni anno un evento ormai tradizionale, ma sempre nuovo e in grado di stupire: così il Palio non è più una rievocazione storica. Sono pochi i cittadini che lo seguono per una specie di orgoglio (un po’ anacronistico, per non aggiungere altro) di discendere da Borso: la maggior parte sente nel Palio il conforto del quotidiano. È storia di amicizie e rivalità, di invidie e di amori, nati in certe serate che si fa tardi, sotto i chiostri di qualche convento adibito a sede. Il Palio è di padre in figlio, di nonno in nipote: è quindi sedimento, cromosomi, tradizione. Di conseguenza, non bisogna stupirsi se Luigi Vincenzi, chiamato ‘Tamba’, nato a Bondeno nel 1926 e scomparso nel 2011 – maestro elementare e colto poeta vernacolare in grado di elevare il ferrarese da lingua del popolo a linguaggio lirico –, decise di inserire nel primo verso del suo poema dialettale dedicato al Palio, "Al Palio ad Frara", un’invocazione in piena regola a "Buiard, Ariost e Tass": la letteratura del passato a supporto di quella del presente. Guardare indietro per vedere avanti: "gnim in aiut", è la preghiera di Tamba ai poeti illustri, "che a g’hò l’zzarvèl ’ch va in fass (il cervello che si allarga a dismisura) / par vlér rivivr’adèss, cóm s’al fuss iér, / al cmanzzipiar (il cominciare) dal Pàlio e d’ògni imprésa / dal Pòpul fata e dala Còrt frarésa". Vincenzi chiarisce subito le gerarchie: prima il popolo, poi la corte: il Palio non è questione d’élite, ma di imprese di donne e uomini comuni appartenenti ciascuno a una delle otto contrade, distinte dalle diverse divise araldiche: "A chi al Giamant, a chi la Paradóra, / l’Àquila in pie’ con l’àla quasi dstésa, / Idra e Granata con tré vamp ad fóra, / Ròda, Unicòrann, Linzza con la bénda". E, infine, l’avvertimento: "e, aténti bén che, tuta la fazzénda / un fundamént la g’ha int la nòstra stòria: / la stòria ad Frara int al Rinassimént, / di sò Marchés, di Duca e dla sò glòria". Di nuovo un ritorno al passato, dove tutta la "fazzénda" ha "fundamént", a partire dalla storia di ogni singola contrada, che nelle pagine che seguono tratteremo seguendo il poema di Tamba, pubblicato la prima volta nel 1987 e, di nuovo, insieme a testi di Dino Tebaldi e Stefano Lolli, nel 1992.
Ci prendiamo la responsabilità di rispolverarlo, inserendoci nella catena della tradizione: di nonno in nipote, di padre in figlio, di giornale in lettore.