MARIA SILVIA CABRI
Vivere Carpi

Chiara Lodi, operatrice umanitaria a Gaza: "Cibo razionato, anche la speranza è poca"

Il drammatico racconto della 41enne di ’Medici senza Frontiere’ appena rientrata da una missione ’ad alto rischio’ sul fronte di guerra

Il drammatico racconto della 41enne di ’Medici senza Frontiere’ appena rientrata da una missione ’ad alto rischio’ sul fronte di guerra

Il drammatico racconto della 41enne di ’Medici senza Frontiere’ appena rientrata da una missione ’ad alto rischio’ sul fronte di guerra

"Gaza è veramente una prigione a cielo aperto". La carpigiana Chiara Lodi, 41 anni, operatrice umanitaria e coordinatrice medica di Medici senza Frontiere, è da poco rientrata da una missione a Gaza, dove è stata dal 27 febbraio al 18 aprile.

Nel suo ruolo, ha girato tutto il mondo, con oltre 20 missioni all’attivo, facendo parte da dieci anni del ‘team di emergenza’ di Medici senza Frontiere che è mandato nei luoghi delle catastrofi naturali e delle guerre.

Tra i paesi in cui ha operato ci sono Yemen, Cameroon, Congo, Repubblica Centrafricana, sud Sudan, Sudan, Palestina, Ucraina, Etiopia.

Chiara, perché ha scelto di diventare operatrice umanitaria?

"Nel 2011 mi sono laureata in Infermieristica e l’anno successivo sono partita per la mia prima missione in Camerun.

Ho capito subito che era il lavoro che volevo fare. Le ragioni? Tantissime. Innanzitutto, sono molto curiosa, e in questo c’entra l’essere stata scout, perché mi hanno insegnato che occorre essere curiosi per arricchirsi. Mi piace scoprire cose e persone nuove, fare esperienze, viaggiare, vedere posti che nessuno vede. Ogni volta lavoro con persone che al 90% non conosco, il che significa ricominciare sempre da capo, mettersi in gioco. Inoltre, ho capito che avrei potuto canalizzare questa ‘energia’ in qualcosa che potesse essere utile alla comunità. E ho potuto fare questo perché i miei genitori mi hanno sempre detto: ‘Fai le cose che ti rendono felice’".

Com’è nata la missione a Gaza?

"Faccio parte dell’unità di emergenza di Medici senza Frontiere e come tale coordino gli interventi medici: ci sono delle rotazioni tra di noi, era il mio turno di andare a Gaza. Di solito nelle missioni ‘regolari’ abbiamo contratti da tre o sei mesi. Possiamo essere chiamati in qualunque momento".

Però è rimasta meno tempo… "Sì, perché era una missione ‘ad alto rischio’, che può durare al massimo 8 settimane.

Le condizioni di vita, il lavoro e anche la pressione che si vive sotto i bombardamenti sono molto stressanti. A fine mese tornerò in Sudan dove sono già stata altre tre volte".

Tante missioni alle spalle: ha percepito qualcosa di diverso a Gaza?

"La sensazione di una ‘prigione a cielo aperto’. Lo dicono tutti, ma nessuno fa niente.

Mi era capitato solo un’altra volta: nel 2020, in Etiopia, durante la guerra del Tigrè, quando l’esercito etiope non faceva entrare aiuti umanitari, cibo".

Anche là stanno drammaticamente vivendo il blocco degli aiuti umanitari…

"Sono arrivata il 27 febbraio, ossia a pochi giorni dal cessate il fuoco: la popolazione aveva lentamente ripreso la vita normale, i bambini erano tornati a scuola. Dopo due giorni, ero in una riunione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno cominciato a suonare tutti i telefoni.

Avevano chiuso le frontiere. Tutti sono scomparsi per andare nei supermercati, al mercato, a fare scorta di cibo.

Da subito abbiamo iniziato a razionare ogni cosa: cibo a casa, farmaci, carburante".

Esiste ancora la speranza nella popolazione?

"Cercano di convincersi che ci sia ancora la speranza, ma nel cuore sanno che non c’è, tutti sono consapevoli che non può finire molto bene. Sono quasi due mesi che non aprono le frontiere, nonostante tutti gli appelli che sono stati fatti".

Come sopravvivono?

"Al mercato i prezzi della merce, della verdura, sono altissimi, mancano acqua e benzina, i depuratori non vanno.

La popolazione sopravvive con le scorte, e poi razionando i bisogni essenziali. È drammatico ma si comincia a dare meno cibo alle persone più vulnerabili e che probabilmente non ce la faranno dopo, ‘privilegiando’ quelle un po’ più forti e che possono essere anche una forza lavoro".

Nello specifico, qual è il suo compito?

"Tutti pensano che gli operatori umanitari internazionali vadano nei Paesi con lo zainetto pieno di siringhe e garze e curino la gente per strada.

No, non funziona così: il nostro compito è di organizzare, fare formazione e risistemare quello che è stato distrutto, ovviamente agendo in modo diverso a seconda che si sia in presenza di un’epidemia o di un una guerra. Dobbiamo formare le persone in loco in modo che siano poi autonome quando andremo via".

Come gestite gli accessi negli ospedali?

"A seguito dei triage, si prendono delle decisioni.

Si tengono i farmaci per operare i casi gravi. Quelli che possono aspettare, aspettano oppure si cerca di curarli in modo diverso, con antibiotici.

Cerchiamo di salvare gli antidolorifici per i bambini e per le operazioni, magari se ne somministra un po’ meno e si esegue più velocemente l’intervento: quando si hanno poche riserve, si fa con quello che si ha".

‘Ciò mi ha insegnato ad apprezzare le piccole cose’: cosa intende?

"Vedo come vivono i bambini e le famiglie: tantissimi non hanno la televisione, né lo smartphone, non sapranno mai come si può vivere meglio.

Per loro la vita è quella, non hanno un’altra visione.

Noi siamo davvero fortunati, e a volte mi colpevolizzo perché, nonostante io veda queste cose e sappia di essere fortunata, a volte a casa mi lamento per delle sciocchezze, ma poi cerco di tenere a mente quello che ho visto. Bisogna dare importanza alle piccole cose, i piccoli gesti… quelli cui a un certo punto non si fa più caso perché diventano routine, normalità, come qualcuno che ti apre la porta o che ti fa passare davanti per la spesa. Cose che si sono un po’ perse. Per chi ha fatto gli scout come me, sa che queste cose ci vengono insegnate veramente da molto piccoli. Te le porti dentro".

Tornerà a Gaza?

"Se mi mandano, sì. A fine maggio parto per il Sudan e torno a fine agosto: e a settembre mi sposo…".