PIERFRANCESCO PACODA
Cronaca

"La ribellione punk qui è ancora viva"

Riccardo Pedrini presenta oggi da Feltrinelli la nuova edizione di ’Ordigni’, che racconta la storia del movimento musicale in città

"La ribellione punk qui è ancora viva"

"La ribellione punk qui è ancora viva"

Era una città attraversata da una grande tensione culturale sotterranea, la Bologna di fine anni 70, c’era stato il ’77, l’esplosione della scena rock cittadina, con Skiantos e Gaznevada, che sarebbero rapidamente diventate delle celebrità nazionali, e c’erano i racconti che arrivavano dall’Inghilterra su un movimento che mescolava chitarre distorte e anarchia.

Era il punk che trova la sua prima casa importante italiana proprio sotto le Due Torri e che seduce adolescenti in cerca di un suono che parlasse in maniera esplicita, ma non secondo i canoni della politica tradizionale di ribellione.

Un fenomeno raccontato da Riccardo Pedrini, scrittore, che ha fatto parte del collettivo Wu Ming, musicista con i Nabat e adesso con i MarsX, nel libro ’Ordigni-Storia del punk a Bologna’, appena ripubblicato (ed Red Star Press) in una nuova, più ricca edizione, che verrà presentato oggi alla Libreria Feltrinelli Ravegnana (ore 18). Dialogano con l’autore Roberto Colombari e Cesare Ferioli.

Pedrini, il suo libro esce nei giorni nei quali sembra possibile una reunion dei CCCP. Quella del gruppo di Giovanni Lindo Ferretti e quella del punk bolognese sono storie che si intrecciano?

"Certo, si intrecciano in maniera esplicita. I CCCP non sarebbero esistiti se una minuscola etichetta indipendente bolognese, la Attack Punk Records non avesse dato credito a un gruppo di folli che inneggiava all’Unione Sovietica e a Carpi insieme. Il loro primo singolo, ‘Ortodossia’, esce nel 1984 per questa piccolissima casa discografica e farà nascere il culto per il gruppo. Segno che il punk, a Bologna, dopo essere arrivato dall’Inghilterra, aveva già trovato una sua identità precisa".

Quanto contava il desiderio di ribellione e quanto il fatto musicale?

"Avevano entrambi lo stesso peso. Il punk bolognese è libertario e soprattutto abbraccia l’anarchia, come cantavano i Sex Pistols in Inghilterra. Superava quindi la concezione della politica di lotta del ’77, non voleva essere etichettato, ma di quel movimento conservava il desiderio di sentirsi fuori dal sistema. Il punk a Bologna voleva costruire un proprio sistema alternativo".

Ci è riuscito, secondo lei?

"Io vedo oggi, che a distanza di decenni, tutto quello che chiedevamo con le nostre canzoni, sì è concretizzato. Penso ai luoghi di incontro, agli spazi occupati, la cui lunga e affascinante storia cittadina è strettamente legata al punk dei primi anni 80. È grazie a questa musica, ai suoi contenuti, se sono nati spazi come l’Isola nel Kantiere e il Link ed è grazie al punk che si è sviluppato il fenomeno della gestione in prima persona della propria arte, grazie alle etichette indipendenti".

Lei come si è avvicinato al punk?

"Ero entusiasta dei miei coetanei che alle scuole medie ostentavano le prime spille da balia, che decoravano le giacche prese in prestito dai genitori. E poi ci fu l’incontro con i Nabat, ai quali mi accostai prima da ascoltatore e poi entrai a far parte di quel gruppo che è diventato una realtà trans generazionale. Il loro pubblico, oggi, è composto dagli adolescenti con la mitologia del punk e dai loro seguaci degli esordi, che adesso hanno sessanta e più anni. Lo spirito di ribellione a Bologna non si è ancora esaurito".