"Racconto la sacralità dell’Appennino"

Marco Righi presenta oggi all’Orione il suo film ’Il vento soffia dove vuole’: "C’è bisogno di più silenzio". .

"Racconto la sacralità dell’Appennino"

"Racconto la sacralità dell’Appennino"

Marco Righi ambienta il suo ‘Il vento soffia dove vuole’ in un piccolo paese dell’Appennino emiliano. Dove la vita è più lenta, più pudica e più cattolica. La scossa nella quotidianità di Antimo (Jacopo Olmo Antinori) arriva quando incontra Lazzaro, che lavora nella fattoria vicina, e si propone di convertirlo. Oggi alle 21 (alla presenza del regista) e domani alle 19 il film viene proiettato al cinema Orione di via Cimabue.

Righi, un film realizzato con meno di 200mila euro e 18 giorni di riprese…

"Sì, ho girato il precedente in 14 giorni. Figlio di quell’esperienza, sapevo a cosa stessi andando in contro. Provare a girare in tre settimane è stato un azzardo ma ci siamo riusciti. Avevo in mente la regia, sapevo non avrei girato troppi shot, volevo lasciare un respiro al film, con pochi punti macchina. Questo mi ha permesso di renderlo compatibile con le possibilità".

Ambientato in un luogo e in tempo indefinito…

"Ho cercato l’ambiguità su più livelli: nel suo protagonista, nei rapporti, nelle interazioni tra personaggi. Volevo creare una bolla atemporale: il film è contemporaneo, anche se per certi aspetti non si direbbe. Ma è una contemporaneità avulsa dalla modernità, anche per un fattore estetico".

Cosa non le piace della modernità?

"La tecnologia. Non la ritengo così interessante visivamente, cinematograficamente. Per il protagonista, per esempio, ho recuperato Nokia 3310. Il film si pone delle domande ataviche, volevo restituire il rallentamento che per certi punti di vista hanno i luoghi di montagna".

Il suo film precedente, ‘I giorni della vendemmia’, è arrivato in sala nel 2012. È stato un lungo lavoro quello che l’ha portata a ‘Il vento soffia dove vuole’?

"Ho lavorato a un altro progetto, che deve ancora vedere la luce. Anche vicende personali hanno influito: la perdita di mia madre, un tema presente nel lungometraggio, così come il dolore, la sofferenza e la morte. Temi con cui sono entrato in contatto e che rendono il lavoro personale, ma non biografico".

Esplora anche il tema del sacro…

"Ho tentato di esplorare la sacralità, anche se non so esattamente da dove arrivi questa fascinazione".

È credente?

"Non sono una persona di fede, la fascinazione deriva forse dall’educazione cattolica, dalla frequentazione molto personale con la fede. Ho bisogno di momenti di silenzio, di raccoglimento. E la sacralità non significa, per forza, religiosità. La sacralità e la spiritualità possono essere anche laiche: guardare le persone, contemplare i silenzi e ciò che c’è intorno a noi".

Con quali film è cresciuto?

"Sono nato negli anni Ottanta, l’interesse per il cinema deriva da registi come Steven Spielberg e Robert Zemeckis. Più tardi ho studiato la storia del cinema, Bertolucci, Antonioni o il bolognese Valerio Zurlini".

Per questo film a chi si è ispirato?

"Autori più spirituali: Robert Bresson, Andrej Tarkovskij, Ingmar Bergman, forse Carl Theodor Dreyer".

Amalia Apicella

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