ANDREA SPINELLI
Cronaca

’The Blues Brothers’: il mito di Jake & Elwood

All’Europauditorium l’unico show autorizzato. Brad Henshaw: "Una grande responsabilità: siamo in... missione per conto dei fan"

’The Blues Brothers’:  il mito di Jake & Elwood

’The Blues Brothers’: il mito di Jake & Elwood

Più Jake di Jake. C’è l’icona John Belushi nel cuore di Brad Henshaw, interprete ’ufficiale’ dell’attore americano scomparso nell’82 così come lo racconta quel ’The Blues Brothers-The Smash Hit’ in scena stasera all’Europauditorium. Una girandola di oltre trenta ’classici’ affrontati dallo stesso Henshaw e da Mark Lawson nei panni degli intramontabil Jake & Elwood Blues col supporto di un sestetto alle dipendenze del bassista Alan Mian e da tre ’Bluettes’ ai cori. "Visto che i fratelli Blues non sono mai esistiti, ma vivono grazie alla fantasia di Dan Aykroyd e John Belushi (oltre a quella di Howard Shore che ne ideò il nome ndr), sono proprietà intellettuale dei loro autori esattamente come Spider-Man, Mikey Mouse e ogni altro personaggio di fantasia" spiega Henshaw a proposito di quell’approved che contraddistingue lo show. "E siccome il nostro è il solo spettacolo in licenza, quindi in regola i versamenti delle royalties ad Aykroyd e a Judy Belushi, vedova di John, siamo i soli realmente ‘autorizzati’ a portarli in scena. Gli altri concerti ispirati al film di John Landis in giro per il mondo sono tutti illegali".

Insomma, siete in missione per conto di Dio, ma anche di Aykroyd e degli eredi Belushi...

"Già, ma la nostra prima missione è per i fans dei Blues Brothers. In Italia sono molti e il divertimento è assicurato. Quello dei fratelli Blues è un culto che va alimentato di continuo, perché se si raffredda rischia l’oblio. E i concerti servono pure a questo".

Ufficialità significa pure responsabilità?

"Assolutamente. O, almeno, noi la sentiamo molto. Belushi era un genio della comicità, un anticonformista, un pezzo unico, e per me impersonarlo sulla scena sì, è un bell’impegno. Ecco perché per noi è molto importante far capire alla gente che, dietro la facciata ridanciana, siamo molto seri in quel che facciamo".

Il suo incontro con Belushi com’è stato?

"Sono nato a Birmingham, nel Regno Unito, ma parte dell’adolescenza l’ho passata a Toronto, in Canada, con mamma e papà. Belushi mi è entrato in casa dalla tv, grazie al ‘Saturday Night Live’, lo show che l’ha lanciato. Poi ho visto il film e sono rimasto folgorato, come tutti. Ecco perché penso che questo spettacolo offra ai più giovani l’opportunità di appropriarsi di qualcosa che anagraficamente non gli appartiene. Un po’ come un concerto dei Rolling Stones".

Il repertorio dello show proviene solo dalla celeberrima colonna sonora del film del 1980 o pure dal sequel di vent’anni dopo?

"Del sequel abbiamo solo qualche canzone, perché il culto è attorno al film dell’80. Belushi, infatti, era un personaggio unico e la sua alchimia con Aykroyd pure".

L’accoglienza è uguale dappertutto?

"No. Il pubblico, soprattutto giovane, cambia a seconda dei luoghi. Ma la musica è la lingua del mondo e anche se qualche dialogo può sfuggire, non sfugge il senso dello spettacolo. Tant’è che il finale è sempre una baraonda, con la gente tutta in piedi a cantare e a ballare".