REDAZIONE CESENA

Cappello e zanetta, la moda per distinguersi

Nella Cesena dell’Ottocento i codici di abbigliamento erano rigorosi e marcavano visivamente le differenze di classe

di Gabriele Papi

Come vestivamo. Costumi e mode delle cesenati e dei cesenati nei primi anni del ‘900, Scampoli di cronache della vita quotidiana -piccola specialità di questa rubrica- che come un fiume carsico racconta la fatica della storia e l’evolversi dei costumi e dei rapporti sociali. Attingendo sempre da fonti primarie, di prima mano, come le cronache del concittadino Giuseppe Belletti. figlio di buona famiglia ebbe il privilegio di frequentare negli ultimi anni dell’800 il nostro liceo classico: allora l’unico delle provincia, racconta Belletti, frequentato anche da studenti di Forlì e Rimini e "da o due tre ragazze, tenute in grande isolamento. Noi le guardavamo come animali rari…". Osservazione che la dice lunga sulla mentalità di quel tempo.

A proposito di ragazze: era profonda la divisione sociale esistente tra le ragazze del popolo e quelle cosiddette di buona famiglia. Queste ultime "dovevano portare immancabilmente il cappellino e non potevano assolutamente uscire se non accompagnate da qualche membro di famiglia o dalla domestica. Le ragazze del popolo dovevano accontentarsi di una sciarpa ma viceversa potevano uscire da sole per le strade". Le popolane mettevano il cappellino quando riuscivano a salire la scala sociale, sposate a un marito danaroso: non succedeva spesso. Il nostro cronista cita al riguardo un aneddoto gustoso. Quello d’una popolana ben sposata che non riusciva ad abituarsi al cappellino e brontolava con le amiche: "s’e m’e caz la zenta i rid (se me lo metto la gente ride), s’an me caz e mi marìd e ragna (se non me lo metto mio marito mi sgrida)". Per concludere, con pragmatismo da sposa: "e sarà mei cà me fècca (sarò meglio che me lo ficchi in testa)". La storia dei cappellini da donna apre una finestra sulle specializzazioni artigiane della sartoria. I cappellini erano di pertinenza delle modiste che li confezionavano oppure li rinnovavano a seconda delle mode. C’erano le ricamatrici. E le bustaie che realizzavano i busti, o corsetti, di tessuto elastico con ganci, ferretti o stecche di cartilagine di balena per snellire al massimo, come uno strumento di costrizione, vita e fianchi delle signore. Le gonne erano rigorosamente lunghe. Erano inoltre di moda, per chi poteva permetterseli, i ‘riparapolvere’ (poi detti spolverini), mantelli per non inzaccherare le vesti.

Per gli uomini della ‘Cesena bene’ era di rigore la giacca redingote (o finanziera), la zanetta (bastone da passeggio), in testa paglietta o bombetta secondo stagione. Spiccavano i baffi arricciati in vario modo: a uncino, a manubrio, a spranga, alla Verdi. E il solino, ovvero il colletto inamidato e rimovibile delle camicie: si cambiava più spesso il colletto che non le camicie. L’igiene maschile ‘d’una volta’ (definizione favolistica oggi in auge nostalgica) era imbarazzante. La passeggiata della domenica di allora portava, lungo Borgo Cavour, fino alla stazione: a vedere i treni fischianti e al buffet di Marsilio (Casali) per la merenda golosa, albana di Romagna e pagnottella dolce da inzuppare. Per i bambini, manciate di ‘garibaldini’, caramelline tonde di zucchero rosso.