
Il salame gentile, ma non con il colesterolo
di Gabriele Papi
Salame e salsiccia, gustosi mangiari d’inverno: chiedendo venia ai vegetariani. E con piccoli colpi di scena storici: "sei un salame!" era, in qualche caso è ancora, la sgridata a chi ha combinato piccoli guai. Perché mai questo modo di dire? Perché nel nostro passato remoto i salumi erano considerati un cibo volgare, grossolano, da contadini: dunque aborrito da certe classe ricche (che poi ,spesso, erano costituita da ’pitocchi’). Avevano meno ubbie i ghiottoni: lo dimostra un poema giocoso, ’La Salameide’, pubblicata a Venezia nel 1772. Poi nel tempo arriverà la rivincita del salame grazie alla riscoperta del mangiare popolare, con conseguente rialzo dei prezzi di cibi considerati fino a poco prima di basso rango: è l’effetto del marketing. L’Italia è davvero il paese dei salami: l’atlante dei ’Prodotti tipici d’Italia’ elenca oltre sessanta salami tipici nella nostra Penisola, senza contare le ancor più numerose sottospecie locali. La tradizione romagnola e di Cesena vanta il salame gentile, antica e casalinga specialità (grazie alla sapienza dei norcini, gli scarnadòr). L’aggettivo gentile deriva dallo specifico budello di maiale in cui, in altri tempi, era insaccato: proprio quell’involucro naturale contribuiva al sapore particolare di questo salame ottenuto da carne magra suina di qualità, ben tritata con piccoli lardelli integri e una concia di sale di Cervia e pepe in grani; stagionatura dai tre ai quattro mesi. Ancora oggi questa tradizione si rinnova in buoni prodotti realizzati (con il doveroso aggiornamento alle attuali e indispensabili norme sanitarie) da note aziende locali che qui non citeremo perché poi magari ne scordiamo una, suscitando tanghi della gelosia.
Un assaggio dopo l’altro ed eccoci alla salsiccia: paese che vai, salsiccia che trovi. Gran pedigree storico sin dal nome latino, dal tempo dei Romani: ’salsa incicia’, cioè polpette di carne suina tagliuzzata (incicia), insaccate e conservate con il sale, salsum. Allora il pepe doveva ancora arrivare. L’antica, cara salsiccia che nel nostro dialetto diventa zuzèza o zunzèza a seconda dei luoghi, ma è sempre saporosa da mangiare, soprattutto tra due quadretti di piada. Né, in questa rapsodia per ghiottoni poteva mancare un goloso cenno a un’altra delizia popolare derivata dalla lavorazione del maiale in inverno: il cicciolo, o per meglio dire i ciccioli (grasùl in dialetto) sempre declinati al plurale, perché è al plurale che si gustano. Chi ha assaggiato i ciccioli caldi benedetti con succo di limone è a conoscenza di due cose. Prima cosa: una ghiottoneria così è una bomba Molotov per i nostri livelli di colesterolo e trigliceridi; seconda cosa, è difficile trovare sapori così voluttuosi. Dunque, amici ghiottoni: mangiate responsabilmente. A proposito: un nostro amico che è intervenuto con passione ad una delle rituali ’baghinate’ (mangiate di carni di maiale) ancora in auge dalle nostre parti, ha fatto una tale scorpacciata di salumi, salsicce, braciole, costine e ciccioli che la sera, a casa, i suoi familiari hanno dovuto chiedere l’intervento d’un esorcista per placare e agevolare la difficile digestione. Della serie: è Carnevale, ogni scherzo vale…