L’elogio del fritto di Carnevale. Frappe e castagnole: che lovarie

Festa in tono minore negli ultimi anni: a ricordarcela sono i golosi dolci fatti in casa e nelle pasticcerie

L’elogio del fritto di Carnevale. Frappe e castagnole: che lovarie

L’elogio del fritto di Carnevale. Frappe e castagnole: che lovarie

Ultima domenica di carnevale. Festa ultimamente parecchio uscita di scena: perché è uscita di scena la sua grande antagonista storica, la Quaresima. Tradizionalmente il carnevale iniziava il 17 gennaio, il giorno di San Antonio Abate, il santo del porcello (“baghino”in dialetto cesenate: voce millenaria di chiara origine gallica) per durare in gran spolvero fino al mercoledì delle Ceneri. Oggi a ricordarci che è carnevale sono soprattutto le frappe e le castagnole che tengono banco goloso, tra forni, pasticcerie (e qualche casa fortunata): lovarie, appunto, tipiche di carnevale. Vale a dire le nostre frappe (o sfrappole, o chiacchere che dir si voglia), di sfoglia dolce e sottile, tagliate in strisce larghe fritte in abbondante olio bollente (un tempo s’usava lo strutto) e cosparse di zucchero: come le ciliegie una frappa tira l’altra. Oppure le castagnole, frittelline di pasta dolce, tondeggiate come fossero piccole castagne, fritte e poi ravvolte nel miele o nello zucchero: ancora, benedette nel rosolio, ancor meglio se farcite con crema pasticcera. Oggi queste godurie sono cotte anche nel forno: fritte, però, sono un altro andare. Permetteteci di essere in scherzosa controtendenza, tanto più in questi nostri tempi di prevalente penitenza dietetica: ormai non passa giorno che un piacere alimentare non venga messo alla gogna, forse dimenticando l’antica e aurea massima “niente è veleno, tutto è veleno: dipende dalla dose”. E allora consentiteci un elogio del fritto, spesso oggi ingiustamente demonizzato: facciamo nostre le succose affermazioni dell’antropologo (in cucina) Marino Niola, quando cita quel classico dei piaceri della cucina che è “La fisiologia del gusto”, del francese Brillat Savarin. Il segreto della frittura è la sorpresa bollente che coglie il cibo alla sprovvista. Nulla che vedere la gradualità della bollitura o la progressione dell’arrosto: ma l’incantamento dell’olio in bollore che trasforma, attrazione fatale, l’insipida pastella in leccornia goduriosa. Poiché sapore e sapere hanno la stessa radice linguistica (in latino il primo significato del verbo “sapere” è aver sapore) è interessante anche la piccola storia della nostra parola lovaria (che indica tutta una antologia di piccole golosità): lovaria non c’è nei dizionari d’italiano. E’ una nostra parola dialettale poi italianizzata: viene da “lov”. Il “lov“ è il lupo, che nell’immaginario popolare è stato sempre vorace e goloso.

Non era invece golosa ma ammonitrice la campana grande, detta appunto “lova”, perchè risuonava poco prima della mezzanotte del martedì grasso, ultimo giorno di carnevale, annunciando l’arrivo della Quaresima: stop alle gozzoviglie. A proposito: nei campanili le campane vengono legate, tenute silenziose, dal mezzogiorno del giovedì santo fino alla mezzanotte del sabato santo. Correvano proprio quei giorni negli anni’60 quando i soliti ignoti del Circolo Goliardico cesenate riuscirono perfidamente a penetrare nella sagrestia di Madonna della Rose slegando le campane che nella notte ventosa risuonarono, tra stupore e perplessità dei parrocchiani. C’era una la Romagna delle burle d’autore…

Gabriele Papi