Giù, nelle viscere della terra, sotto la centrale di Bargi, il nero è più nero del buio: il nero della luce che non c’è, il nero di tutta la luce che non vediamo; il nero dell’acqua che improvvisamente s’incanala dal lago e si riempie di detriti, olio, fango, corpi, in un limo che di certo non ricorda la villeggiatura del boom economico; il nero dello scoppio, sul cemento e sulle putrelle, sindone di un trasformatore e di una turbina bruciati per ora senza perché; il nero della speranza che, ora dopo ora, svanisce, inghiottita a quaranta, cinquanta, sessanta metri sotto il livello del lago, con le storie e i volti di chi non c’è più e di chi ancora c’è, ma chissà dove e chissà come. C’è il nero e c’è l’uomo davanti al proprio destino, un destino che qui in Appennino è sempre stato fatto di battaglie e di conquiste. Di una natura severa, dura, che spesso si è tentato di addomesticare e che poi si ribella. Pensate alle frane, all’alluvione. Alle infrastrutture. Adesso si ribella anche la tecnologia che incanala quella natura. E l’uomo posto davanti al suo ’nero’ si chiede semplicemente ‘perché’? C’è, nella gente di montagna, in questa terra di mezzo sospesa fra le città e i mari, una grande capacità: quella di leggere il nero senza paura, di andare a fondo e di tornare a galla. Con la consapevolezza che non tutto si può controllare, ma tutto si può imparare. In questa storia di Bargi, in questo disastro che evoca la ThyssenKrupp e la Costa Concordia, in questa strage sul lavoro in mezzo a una natura modificata dall’uomo. in tutto questo nero, si deve anche vedere una luce: l’idroelettrico, le frontiere della scienza (pensate al vicino Brasimone con il prototipo di reattore nucleare di quarta generazione), la tecnologia, la produzione di energia pulita sono il presente e il futuro di una comunità. Che non può però prescindere dalla piena comprensione dei suoi meccanismi, di questa tragedia. Senza sconti. Si deve guardare il nero per tornare alla luce.
EditorialeSuviana, dopo il nero torneranno luce e speranza