Editoriale

Quel che resta del caffè

Caffitaly, la crisi morde. La proprietà chiede di congelare i beni

Caffitaly, la crisi morde. La proprietà chiede di congelare i beni

Il distretto del caffè non esiste più. Bologna deve rassegnarsi. Il suo Appennino non è più la culla di imprese che producevano macchine per il settore, Saeco in testa. Sono anni che questo patrimonio di competenze e di risorse si sta pian piano disgregando e lo dimostrano le ultime due crisi che hanno colpito la Caffitaly di Gaggio Montano e la Beyers di Castel Maggiore. I dipendenti della prima hanno scioperato per otto ore dopo avere approvato un pacchetto di 40 ore di astensione dal lavoro. L’azienda è alle prese con una complessa procedura di rinegoziazione di un debito gigante di 150 milioni di euro con un pool di banche e con un piano industriale di rilancio che non arriva. Da qui la preoccupazione di chi è occupato nei due stabilimenti dell'Appennino bolognese. A Gaggio sono circa 180 i dipendenti, una sessantina lavora all’assemblaggio delle macchine professionali per il caffè, mentre gli altri sono dedicati alla produzione e commercializzazione di capsule, che qui vengono prodotte in conto terzi. Quelle a marchio Caffitaly sono realizzate nella Bergamasca da altri 200 dipendenti. L’azienda è stata fondata nel cuore del distretto del caffè da un gruppo di imprenditori che dopo averla lanciata anche fuori dai confini nazionali l’ha ceduta a un fondo di private equity che poi si è aperto ad altri investitori. A questa crisi segue quella della Beyers di Castel Maggiore, sempre in provincia di Bologna. E’ una filiale della multinazionale, a sua volta di proprietà della svizzera Sucafina, che ha deciso di chiudere il sito italiano: lettera di licenziamento per 30 persone, nonostante un bilancio in attivo, con l’obiettivo di concentrare la produzione all’estero. Insomma, altri due colpi a un distretto che ha occupato migliaia di persone e che poi via via ha subito le difficoltà della Saeco prima e della Saga Coffee poi, lasciando sul terreno centinaia di posti di lavoro. Purtroppo i costi di produzione non sono concorrenziali rispetto ad altri Paesi e la qualità di chi qui conosce le macchine del caffè fin nei singoli particolari non è valorizzata come dovrebbe. Infine, ed è questo un male che colpisce molte piccole e medie imprese italiane, quando gli imprenditori locali passano la mano a stranieri il destino è segnato: prima o poi arriva l’avviso di delocalizzazione. Con tanti saluti ai lavoratori. Purtroppo su questo servirebbe un intervento deciso della politica con anche forme rigorose di protezione dei marchi e dei patrimoni del made in Italy. Ma nulla si muove. Se non quando la crisi è scoppiata.