ENRICO BARBETTI
Editoriale
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Quella palude che invischia fascicoli e fiducia

Pochi giorni dopo l’aggressione dell’8 novembre 2014 in via Erbosa, fui ascoltato come parte offesa in Procura dalla dottoressa Antonella Scandellari per raccontare i fatti e indicare eventuali responsabili. Prima di aprire il verbale, la pm mi ammonì affinché dicessi tutto ciò che sapevo e avevo visto, specie in relazione al riconoscimento degli aggressori. Forse temeva che avrei omesso qualcosa o qualcuno, per paura o per non guastare le buone relazioni che avevo nel mondo antagonista. Al suo ammonimento risposi: “Dottoressa, non si preoccupi. Io farò il mio dovere di cittadino e sono certo, conoscendola, che anche lei farà il suo dovere di magistrato. Ma sono altrettanto certo che, a valle del mio e del suo impegno, la macchina della giustizia nel suo insieme non farà altrettanto”. Preveggenza? No, esperienza di tanti anni passati nelle aule di tribunale. La dottoressa Scandellari, come mi attendevo, lavorò alacremente e chiuse l’inchiesta in appena sei mesi. Ma da quel momento, ovvero la primavera del 2015, il procedimento entrò in quella palude misteriosa dove si inabissano i fascicoli e la fiducia dei cittadini nella giustizia. Comunque fosse andata, a distanza di tanto tempo già sfugge il senso di una sentenza pronunciata dieci anni dopo i fatti per imputati che, nel frattempo, possono avere completamente cambiato vita e opinione oppure reiterato centinaia di volte lo stesso reato. Di certo c’è che il bilancio giudiziario della vicenda si chiude con due condanne a due mesi, ovviamente coperte dalla condizionale quindi non scontate, e due prescrizioni. Per quanto riguarda il sottoscritto, il bilancio ammonta a 60 giorni di prognosi, settimane di infame campagna a colpi di volantini sul web e sui muri della città e zero risarcimenti. Alla fin fine, rompere un braccio a un giornalista non deve essere una cosa così grave come sembrava.