Buffa e la foto simbolo: "Sport e diritti insieme"

Intervista al giornalista che ha rivoluzionato la narrazione delle imprese degli atleti, stasera racconterà i pugni chiusi di Smith e Carlos .

di Lorenzo Longhi

L’immagine più evocativa, quando si parla di sport e diritti, è una fotografia che ha quasi 55 anni: Città del Messico, 16 ottobre 1968, tre uomini sul podio dei duecento piani. Parte l’inno statunitense: in quel momento, due di loro, il primo e il terzo, chinano la testa e alzano il braccio; il destro Tommy Smith, il sinistro John Carlos, mano chiusa e avvolta in un guanto. "Due pugni guantati di nero", appunto, come il titolo dello spettacolo che stasera, dalle 21.30 al parco Ferrari di Maranello, nell’ambito della rassegna Sport+, porterà in scena Federico Buffa, accompagnato nella sua narrazione da Alessandro Nidi al pianoforte. Una vicenda datata, Buffa. Perché è necessario proporla oggi?

"Lo spettacolo è idealmente destinato a un pubblico giovane, che possa immaginarsi uno scenario lontano eppure molto attuale. Stiamo parlando del gesto più coraggioso della storia dello sport: Smith e Carlos sapevano da quel preciso istante che la loro carriera sarebbe finita lì".

Tutto nasce da un professore di sociologia del San Jose State College’s, Harry Edwards. "L’ispiratore fu lui. Comprese che, durante l’inno, l’atleta è intoccabile, dunque libero di fare qualcosa di forte".

Smith e Carlos allora, l’inginocchiamento di Colin Kaepernick pochi anni fa. Lo sport non perdona chi si ribella.

"Anche la carriera di Kaepernick è finita dopo quel gesto, ma è stato protetto dalla comunità nera, e in particolare da LeBron James che ne è un’icona e che gli ha riconosciuto di essersi sacrificato per tutti".

Gesti forti, ma quanto effettivi?

"Se razzismo e discriminazione accadono ancora oggi, significa che in realtà non hanno portato a molto. Ma gli sportivi, in tema di diritti, non devono essere passivi".

Come si spiegano questi aspetti ai giovani?

"Una regola non c’è. L’attenzione è volatile, le possibilità sono due: o l’affidamento di valore, che ti dà al massimo 5 minuti e in quelli devi essere coinvolgente, o perché c’è una richiesta particolare, come avviene quando portiamo lo spettacolo nelle scuole. Ma i risultati sono sorprendenti: tanti ragazzi sono bulimici di stimoli, di storie".

Quanto può incidere lo sport per educare ai diritti?

"Pensate a Mandela e agli Springbok: aveva capito che lo sport ha una capacità di penetrazione molto potente. Le visioni diventano realtà quando ci si accorge che lo sport è un fattore educativo. In questo senso, il nostro Paese paga un prezzo altissimo".

I media non aiutano.

"Perché tutto viene consumato in fretta; è più facile parlare di cose che generano divisione piuttosto che analizzare. Si privilegia la frase forte data in pasto a lettori e ascoltatori. Il tempo dell’approfondimento è finito, ma per fortuna c’è ancora chi è interessato a certi messaggi". Avvocato, agente, giornalista. Poi, con le sue storie di sport, ha rivoluzionato un genere. "La mia vita è cambiata radicalmente, l’ho dovuta reimpostare, cercando sempre di migliorarmi. Si dice che la giovinezza sia la fase più bella, ma oggi, in questa fase molto più produttiva, ho soddisfazioni cento volte maggiori di allora".

Cosa le ha insegnato questo mestiere?

"Che non avevo idea di cosa significassero i mezzi espressivi, della loro potenza".