
Sulla questione vescovo, interviene anche Settimio Bravi, ex primo cittadino di Sant’Angelo in Vado, una delle città contitolari dell’arcidiocesi. "L’annuncio dell’unione – dice Bravi – a quella di Pesaro non mi meraviglia. Secondo la prassi ecclesiastica, ciò che è stato deciso dai vertici della Chiesa, diventa legge per il popolo di Dio, a cui non resta che ubbidire. Il contrasto nasce dal fatto che i vescovi delle Marche e lo stesso papa Francesco producono documenti e parole sulla difesa dei poveri, il rispetto dei popoli e la relazione tra pastori e gregge, ma poi agiscono in tal modo. Nel nostro caso, anche se non lo si vuole ammettere, c’è stata una decisione nei riguardi di una diocesi che non è comune ad altre diocesi italiane, perché ha una rilevanza mondiale, per il contributo insostituibile all’umanesimo di cui ancora siamo eredi. Esprimo dunque amarezza che il Santo Padre abbia lasciato che i vescovi delle Marche realizzassero un progetto di ridimensionamento delle diocesi senza considerare tutti i valori posti in campo; non ultimo, l’asserito percorso sinodale indetto da papa Francesco per l’Italia, che prevede il concorso e il coinvolgimento del popolo di Dio dell’entroterra. I vescovi ed il papa da un lato vogliono mostrare accoglienza per un cammino sinodale tra laici e religiosi, dall’altra agiscono con metodi perentori da editto bulgaro, che non possono che venire rifiutati, specie dalla gente tiepida nella fede, dai non credenti, dagli intellettuali".
Conclude Bravi: "Veniamo da un anno che ha festeggiato il Duca Federico di Montefeltro: prima di lui, in Urbino viveva un insieme di piccoli uomini litigiosi e senza alcun futuro, con ecclesiastici perduti nei loro affari, mentre Roma assecondava supina questa realtà. L’esempio del duca non è servito a nulla: i politici locali e regionali (come per altri temi, dalla viabilità alla sanità al turismo) hanno abbandonato casa loro e l’entroterra. Torneremo, con le preghiere del clero e buona pace dei politici, ai cinghiali".