Casa? L’auto in un parcheggio : "Così si muore, non so come fare"

Le testimonianze di chi non ha più nulla: "Hanno visto dove sto e non mi fanno più neanche lavorare"

Casa? L’auto in un parcheggio : "Così si muore, non so come fare"

Casa? L’auto in un parcheggio : "Così si muore, non so come fare"

"Anche i cani hanno un posto caldo in cui dormire e un pasto caldo da cui mangiare. Anche i cani, ma noi no".

Khalil Habib è arrivato in Italia dalla Tunisia nel 1994. Per quasi 30 anni ha fatto il muratore, poi due anni fa ha dovuto smettere: ha 3 ernie, due inguinali e una lombare, con tanto di certificato medico che attesta l’impossibilità per lui di svolgere lavori fisicamente usuranti.

Con questo è andato a bussare alla porta dei servizi sociali: "Hanno in bocca sempre la stessa parola: ‘Niente. Non possiamo farci niente. Ci dispiace’. Sono andato dappertutto ma la risposta è sempre quella".

Dopo aver perso il lavoro e i risparmi, oggi dorme nella sua macchina in piazzale Europa: sui sedili posteriori ha steso un materasso e qualche coperta. "Un posto letto, nemmeno una camera, costa 350 euro, come posso fare a pagarlo? Gli affitti sono un problema enorme. Non ho risparmi da parte, quando lavoravo i soldi mi bastavano per le spese e quelli che avanzavano li ho mandati in Tunisia, non mi è rimasto nulla".

Habib ha una gran voglia di raccontare, spera che facendo sentire la sua voce qualcuno intervenga.

Non è solo, Mansouri Hachmi dorme di fianco a lui, in un’altra macchina. I due, che parlano un buon italiano, aprono le porte/portiere di casa loro, ci tengono a mostrare le condizioni in cui sono ridotte.

"Ho perso due lavori la settimana scorsa – racconta Hachmi disperato – perché non riesco nemmeno a dormire. Avevo trovato posto come muratore ma tornavo da lavorare sporco e stanco, mi sdraiavo con gli stessi vestiti, non riuscivo a chiudere occhio e la mattina dopo senza cambiarmi ripartivo. I miei capi hanno visto dove vivo e non mi hanno potuto e voluto tenere, come si fa a lavorare in queste condizioni?".

Anche lui è in Italia da 30 anni, anche lui è tunisino e ha sempre fatto il muratore. Nel nostro paese ha anche una famiglia, una moglie e tre figlie, a cui i servizi sociali hanno assegnato un appartamento in provincia di Reggio.

"Vivevo in affitto in zona stazione poi mi hanno sfrattato, il contratto non era regolare e hanno dovuto buttarci fuori. Non sono più riuscito a trovare nulla e mi hanno detto che nella casa per la mia famiglia per me non c’era posto, anche se secondo me un letto si poteva aggiungere. ‘No – dicono loro – aiutiamo solo donne e bambini’. Ma a noi chi ci pensa? Noi moriamo così".

Hachmi ci ha provato in tutti i modi, a garantire un futuro migliore ai suoi figli: "Li ho fatti stare in Tunisia 2 o 3 anni, poi 7 in Ucraina perché mia moglie viene da là. Poi però è successo quel che è successo e sono dovuti tornare qui e non so come fare".

Ha una grande speranza: "I ragazzi adesso vanno a scuola. Fanno fatica, essendosi spostati così tanto non è facile, ma soprattutto il più piccolino è bravo, studiando può salvarsi e aiutarci".

Timido si avvicina anche Foudhail, con modi davvero delicati e raffinati. È venuto in Italia per la prima volta negli anni Ottanta, poi dopo un breve ritorno in Tunisia ci si è stabilito dalla fine di quel decennio. Per 7 anni ha vissuto a Marsala, imparando il dialetto siciliano: "Ho fatto tutto da solo - racconta - perché sono convinto che quando c’è la voglia si può fare qualsiasi cosa. Poi sono venuto a Reggio negli anni Novanta e ho lavorato per tanto tempo come saldatore. L’Italia era diversa - concordano tutti e tre -, la abbiamo vista molto peggiorare negli anni. Tutto è cambiato con la crisi del 2008, c’è stata molta più povertà. Poi il Covid, la guerra e adesso è molto difficile qui".

Foudhail racconta quasi dispiaciuto che non può mostrarci casa sua, la sua macchina, perché l’ha parcheggiata altrove, sotto un cavalcavia: "Lì faceva più caldo, era più riparato".

Piccole accortezze, anche un grado può fare la differenza. I tre non hanno remore né ritrosie, raccontano tutto, mostrano tutto, dai certificati medici ai materassi passando per i pelouches che erano dei loro bambini. "Scrivete bene", chiedono più volte, senza implorare ma con la convinzione di chi, dopo anni di vita e fatica, viene trattato come un fantasma: hanno vissuto e vivono in piena vista, ma di loro nessuno sembra volersi più fare carico.

Tommaso Vezzani