
Vive a Rimini, psicologo e formatore, il dottor Fabio Cola, consulente per club e docente a Coverciano, analizza il fenomeno che sta scuotendo la Serie A. La prevenzione nasce da una rete di relazioni autentiche.
Psicologo, consulente e formatore, vive a Rimini. Collabora con club calcistici ed è docente a Coverciano. Dottor Fabio Cola, oggi emerge un nuovo scandalo nel calcio: alcuni giocatori di Serie A coinvolti in scommesse clandestine. Come si può leggere questo fenomeno dal punto di vista psicologico?
"È un tema delicato, ma profondamente rivelatore. Il calcio è per sua natura un’esperienza collettiva: si gioca in gruppo, si vince o si perde insieme, si vivono sfide comuni. Ma il gioco d’azzardo si muove su un piano opposto: è solitario, è una sfida con sé stessi, e spesso rappresenta un bisogno urgente di controllo e di adrenalina. Per alcuni, la gratificazione esclusiva, quasi privata, di una scommessa può essere più stimolante di quella condivisa. Parliamo di un gesto impulsivo, dove ciò che conta non è tanto il denaro, ma l’emozione rapida, l’eccitazione istantanea. È lì che si annida il rischio: in quel passaggio dalla squadra al sé, dalla regola al caos. Per chi è abituato a vivere ogni giorno sotto l’occhio pubblico, il gioco può diventare un modo per ritrovare una zona d’ombra, anche se tossica".
Il calciatore è percepito spesso come una figura privilegiata. Perché si fa fatica a riconoscere la sua fragilità?
"Perché il loro privilegio è molto visibile: è economico e mediatico. Ma proprio per questo si tende a pensare che siano immuni da qualunque fragilità. In realtà, molti di loro vivono dentro una “mono-identità”: sono calciatori e basta. Se vincono, sono acclamati come fenomeni; se sbagliano, cadono subito nel dimenticatoio o diventano bersagli. È un’identità fragile perché dipende tutta dalla performance. Le persone comuni, invece, hanno una rete più articolata: genitori, amici, colleghi, datori di lavoro, contesti diversi in cui essere sé stessi. Hanno una pluralità di ruoli che li sostiene. Il calciatore spesso no: cambia città ogni due anni, ha relazioni professionali instabili, e fuori dal campo è lasciato solo a se stesso. Questo lo espone a vuoti relazionali importanti. E quando mancano reti affettive solide, si cercano surrogati di gratificazione o di appartenenza, spesso a rischio".
In che modo i club possono prevenire certe derive, come le scommesse o altri comportamenti a rischio?
"Serve una visione più ampia, che vada oltre il campo da gioco. Quando collaboravo con Prandelli a Parma, avevamo sviluppato un progetto che si chiamava “Da turisti a cittadini”. L’obiettivo era semplice ma profondo: far sì che i giocatori si sentissero parte di una comunità, non solo professionisti di passaggio. Li invitavamo a conoscere il territorio, a esplorare la dimensione sociale della città, a creare legami reali con ciò che li circondava. A Udine, il club ha lavorato sull’integrazione delle mogli e compagne dei calciatori, molti dei quali stranieri. Un percorso inverso, ma efficace: si parte dal coinvolgimento della famiglia, per arrivare poi all’atleta. Un club, se vuole davvero tutelare i propri giocatori, deve costruire reti di sostegno che li accompagnino anche fuori dal rettangolo verde".
Lei vive a Rimini. Quanto l’ambiente e la comunità incidono su questi comportamenti?
"Incidono tantissimo. Una comunità che accoglie, come Rimini, che crea reti di relazioni sane, è uno strumento di prevenzione potente. Il problema è che molti calciatori, spostandosi continuamente, vivono come “apolidi affettivi”, legati solo al rendimento. E dove manca il senso di appartenenza, cresce il rischio di cercare surrogati".
Carlo Cavriani