
L’eroe di Romagna. Storia di un anarchico. Cipriani, una vita spezzata dall’utopia
Le tragiche vicende dei dissidenti morti in carcere, pur senza la pretesa di alcun paragone,
richiamano alla mente le reclusioni di Amilcare Cipriani, di famiglia riminese, personaggio celeberrimo nell‘800 e nel ‘900. Rivoluzionario anarchico, nella sua vita avventurosa aveva partecipato a 15 anni alla seconda guerra d’Indipendenza, raggiunto Mazzini a Londra, cercato le sorgenti del Nilo, combattuto alla Comune di Parigi, sofferto la prigionia in Nuova Caledonia e ricevuto la libertà alla fine del 1880. Ora il suo pensiero era rivedere il padre morente a Rimini: ma purtroppo lo aspettava un’amara sorpresa che lui stesso raccontò a Paolo Valera circa 30 anni dopo.
"Il 31 gennaio 1881 giungevo da Roma a Rimini in treno alle 9 di sera, dopo un’assenza di 22 anni. Me ne ero andato quindicenne, pieno di entusiasmo, di vita e di speranze, lasciandomi al dorso una famiglia numerosa. Vi rientravo vecchio, disilluso, perseguitato. Credevo di giungere in tempo ad abbracciare mio padre. Volevo abbracciare la mia buona Amalia e il caro Alceste. Il fratello era in prigione e io venni agguantato subito dalla polizia. Si dice che io sia stato denunciato da qualche spia. Può darsi. Non ne so niente. Il maresciallo dei carabinieri mi ha veduto scendere dal vagone e mi ha arrestato senza uno straccio di mandato. Circondato da un gruppo di gendarmi e di birri, venni rinchiuso in una carrozzella e condotto al trotto alla caserma della piazza della Rocca. Perquisito alla presenza di un delegato, dal sottoprefetto de Conti e dal luogotenente dei carabinieri Moretti, domandai loro di essere condotto al letto del padre morente. Non s’impietosirono. Il pretesto era l’ora tarda. Fui consegnato alla Rocca. Subii un’altra visita. Lo "sgherro" mi chiuse in un camerone alto, scuro, sporco, gelato come una ghiacciaia, con un pagliericcio e due pezzi di coperta che non bastavano a coprirmi. Rimasi al buio. Mezz’ora dopo rientrò a ispezionare accuratamente le inferriate, i muri, il pavimento, percuotendo un po’ dappertutto. Nell’aria umida, tutto assiderato, non potevo nè sedere, nè coricarmi, nè passeggiare. C’erano molti topi neri. Mi passavano sulle scarpe. Per liberarmene feci dei passi. Mi fu ingiunto di stare quieto. Chiesi una coperta: negata; uno sgabello, rifiutato. Allora mi ribellai. Passeggiai tutta notte, a dispetto dello sgherro imbestialito. La
sudiceria della Rocca era incredibile. Si leggevano sulle pareti iscrizioni vecchie di dieci anni. Gli usci e le finestre eran fracide. I vetri rotti e i rulli opachi lasciavano entrare pioggia, vento, neve, grandine. Il freddo intirizziva". Testimonianza di questi fatti sono i ceppi tuttora conservati presso la nostra biblioteca Gambalunga. L’ospitalità del nostro a Castel Sismondo non fu lunga: in compenso, dopo un processo che Cipriani definì politico e di dubbia regolarità per un fatto accaduto ad Alessandria d’Egitto, venne condannato a 25 anni di lavori forzati da scontare nella prigione di Porto Longone, l’attuale Porto Azzurro sull’isola d’Elba.
Qui, nonostante l’elezione a deputato, dovette subire una durissima carcerazione che affrontò con animo inflessibile. Il capo delle guardie in particolare lo prese di mira per la sua fermezza: "Egli si vendicava col vitto, col riposo, coll’aria, col passeggio. Mi faceva infliggere con falsi rapporti ingiuste punizioni. Le sue vessazioni, le sue prepotenze, le sue angherie, le sue violenze mi potevano angustiare, non imbestialire. La perfidia del capo continuava. Quel po’ di latte che comperavo per rifocillarmi dalla fresca malattia cercava di rendermelo odioso. La guardia doveva assistere alla mungitura. Davanti alla cella, prima di darmelo, lo faceva versare a goccia a goccia in un altro recipiente e prima di lasciarmelo bere si serviva di un fuscello di granata che aveva servito a spazzare i catarri e a sciacquare i buioli per scuoterlo e frugare in fondo se vi era qualche cosa. Un giorno il mezzo litro di latte non era che acqua di calce e farina. Lo rifiutai. Era quello che si voleva. È d’allora che è incominciato quel lungo e crudele digiuno che doveva durare dal novembre al giugno. È il periodo che mi ha rovinata la salute irrimediabilmente. Mi negò qualunque nutrimento a mie spese. La mia povera salute deperiva. Non potendo inghiottire la schifosa jozza [il misero rancio dei carcerati] non mi rimaneva che l’acqua e una crosta di pane nero che mi si dimezzava e si tagliuzzava per la solita paura che vi si trovasse qualche biglietto clandestino. Tutte queste sevizie e queste proibizioni a comperarmi qualche cosa mi avevano ridotto a uno scheletro. Sentendo che venivo meno, dissi al direttore che volevo scrivere al prefetto. Ma il direttore mi disse che non potevo, perchè i bagni penali erano autonomi e i prefetti non c’entravano. Mi sentii perduto. Quotidianamente provocato, privo di libri e di notizie, malandato in salute, pensai più di una volta di farla finita. Ripiegato su me stesso, non rispondevo più che con disprezzo, con sarcasmo amaro, mordente. Le lettere della famiglia mi venivano cancellate qua e là o soppresse addirittura perchè contenevano cose che un prigioniero non doveva sapere. Le mie che scrivevo erano tagliate, ridotte, trattenute o protratte, magari di uno o due mesi. Una disperazione. Sevizie sopra sevizie". Fortunatamante, grazie alle pressioni degli amici, il ministro di Grazie e Giustizia Zanardelli ottenne dal re Umberto I un atto di clemenza che condonava la pena residua: ciò permise ad un Cipriani distrutto nel fisico ma non nello spirito di uscire finalmente dal carcere e tornare, in un viaggio trionfale, a Rimini che poi lasciò per andare a Parigi. Nel 1913 un’inedita alleanza tra socialisti (di cui fu promotore il direttore dell’Avanti! Benito Mussolini che aveva come secondo nome proprio Amilcare per ricordare questa personaggio favoloso), anarchici e repubblicani lo fece eleggere con una ampia maggioranza deputato alla Camera, seggio che però Cipriani rifiutò per non giurare
fedeltà al re. Morì a Parigi nel 1918, in povertà assistito da una figlia che egli aveva rivisto solo nella sua vecchiaia.
Andrea Montemaggi