(...) La spiaggia larga metri 150-250 è formata da sabbia finissima e omogenea: la pendenza del fondale è minima, per cui la profondità di 2 metri si trova ad almeno 250 metri dalla riva e quella da 4 metri a un km. Quella guida elencava una quindicina di alberghi (i più aperti da maggio a ottobre, alcuni anche d’inverno, quindi camere con termosifone), una ventina di pensioni di I e II categoria, numerose altre pensioni di III. E 2 camping. Negli anni seguenti decollava il turismo di massa in riviera: l’estate era “boom”. E si moltiplicava dunque l’offerta alberghiera.
La racconta la guida turistica “La Riviera adriatica di Romagna”, di Marcello Caminiti, che esce nel 1966. Cesenatico, abitanti 15784, contava nelle diverse categorie (con diversi prezzi) 96 alberghi (9 aperti tutto l’anno), 198 pensioni, 51 locande, più 12670 posti letto in camere, ville, appartamenti ammobiliati. Ancora, 8 pensionati religiosi e diverse colonie estive per bambini. I ristoranti aperti tutto l’anno erano 19: 84 gli esercizi annuali tra caffè, bar e pasticcerie (durante l’estate diventavano 170), 8 i locali notturni, i camping restavano due ma meglio attrezzati. 98 gli stabilimenti balneari con 730 cabine in muratura, 1210 in legno, ombrelloni e sdrai a go gò. Andavano forte, a noleggio, i mosconi: piccole imbarcazioni a remi (l’inventiva artigiana romagnola stava per tirar fuori i mitici pedalò, meno faticosi da condurre). Il grosso dei turisti, allettati anche da prezzi moderati, soprattutto per le famiglie, rispetto ad altre coste italiane, veniva dall’Emila, dalla Lombardia, dal Veneto. Di rilievo inoltre la presenza fedele di turisti dalla Germania, coccolati come cocker. Ma dietro le quinte non era tutto oro quello che riluceva. La “vivace espansione” di Valverde, Villamarina, Zadina Pineta aveva allungato turisticamente la spiaggia di Cesenatico fino a 7 km.
Se “Il ballo del mattone” era una romantica canzone, allora di moda, di Rita Pavone, la febbre del mattone contagiava anche la nostra riviera , arricchendo alcuni arrembanti investitori ma dilapidando un patrimonio naturale di verde, di piante, arbusti e di lembi di spiaggia che avevano conservato anche nel dopoguerra una loro specifica selvaticità. Del resto, in quegli anni, il tema della cura e della salvaguardia ambientale era patrimonio culturale non diffuso, ma di pochi lungimiranti. E i loro inviti e ammonimenti che definivano gli interventi scriteriati sull’ambiente come assegni post datati che presto avrebbero presentato il conto all’intera comunità venivano considerati come profezie da Cassandre di sventura. Ma questa è un’altra storia.
Gabriele Papi