SERGIO GIOLI
Editoriale

La fine delle botteghe

I negozi vengono uccisi tutti i giorni dagli affitti alle stelle, dalle tasse, dalla burocrazia e, ovviamente, dalla grande distribuzione. E quando le serrande non si abbassano, si trasforma comunque l'offerta e alla fine sopravvive soltanto il cibo di strada

Una delle ultime botteghe storiche a chiudere è stata il forno di Frassinoro, paese di 1.725 anime a 1.131 metri di altitudine, provincia di Modena ma in odor di Toscana. E chi gliel'ha dato il colpo di grazia dopo più di quarant'anni di attività? La burocrazia europea. Già, perché il forno di Frassinoro ha ricevuto un'ispezione di routine il cui responso è stato che, regolamento Ue alla mano, per restare aperto avrebbe dovuto certificare l'impianto elettrico (e fin qui tiriamoci via), dotarsi di uno spogliatoio (chissà perché) e di un montacarichi per spostare il pane direttamente dal laboratorio al negozio (loro, disgraziati, lo portavano a mano). Una spesa di molte migliaia di euro. I titolari, marito e moglie, si sono guardati in faccia e hanno detto basta. Si dirà: sono i problemi dei paesi montagna. Macché, in pianura le cose non vanno meglio. Nelle città emiliane, romagnole e marchigiane non si contano le serrande abbassate e i centri storici sono desertificati. I negozi vengono uccisi tutti i giorni dagli affitti alle stelle, dalle tasse, dalla burocrazia e, ovviamente, dalla grande distribuzione. E quando le serrande non si abbassano, si trasforma comunque l'offerta e alla fine sopravvive soltanto il cibo di strada, tanto che passeggiare per certe viuzze medievali ormai è un'esperienza surreale, degna di un film di Marco Ferreri: a tutte le ore del giorno, folle fameliche stanno sedute all'aperto sotto bruttissimi funghi elettrici a mangiare salumi e formaggi. E dove non ci sono i bistrot finto-emiliani ci sono le pizzerie da asporto, e dove non ci sono le pizzerie da asporto ci sono i kebabbari, e dove non ci sono i kebabbari ci sono birrerie e pub, e avanti così, in una sorta di girone dantesco popolato da golosi crapuloni. Chiudono, in compenso, le ferramenta e le mesticherie, le drogherie e gli elettricisti ma anche le edicole, i negozi di abbigliamento sartoriale e di scarpe, di cappelli e di tessuti. E fa sorridere che a consentire questa evoluzione siano stati gli amministratori locali eredi del parsimonioso e frugale Pci, che negli anni Cinquanta ironizzava sui forchettoni democristiani.

Per tutelare i negozi forse basterebbe un po' di buonsenso. Magari qualche agevolazione fiscale in più e qualche adempimento burocratico in meno. E, da parte dei sindaci, un minimo di programmazione e accortezza nella concedere licenze: perché mangiare è bello e l'enogastronomia è cultura, ma una città non può offrire ai turisti e ai suoi abitanti soltanto mortadella, ciccioli e prosciutto.