Lo chiamano dissenso

Quando la minoranza pretende che i rappresentanti della maggioranza si pieghino al suo volere, non si chiama dissenso. Si chiama prevaricazione

Tutto si può dire di questo bislacco Paese meno che non garantisca il dissenso. In Italia dissentono tutti, comunque e ovunque. Non si fa in tempo, per dire, a eleggere un segretario di partito la mattina che la sera qualcuno comincia a segargli le gambe della seggiola. Vale lo stesso per un sindaco come per un allenatore di calcio. Osannati e demoliti in men che non si dica, sui giornali, nei bar, nelle piazze e negli stadi. Perfino i pontefici di Santa Romana Chiesa non sfuggono alla regola. Ed è un bene che il potere, di qualunque natura esso sia, senta il fiato sul collo e si regoli di conseguenza. Se questo è il quadro, stupisce sentire gente strepitare per il dissenso negato. Sta capitando in questi giorni nelle università italiane. Da Torino a Bologna, da Modena a Roma, è tutto un echeggiare di alti lai di studenti indignati. Il punto è Israele e la repressione in corso a Gaza dopo il pogrom di ottobre compiuto da Hamas. Orribili entrambi. Una parte degli studenti italiani vorrebbe che i propri Atenei troncassero ogni rapporto con quelli israeliani. Richiesta assai discutibile per una serie di ragioni, eppure legittima come ogni richiesta democraticamente espressa. Il fatto è che di democratico nell'agire di questi paladini del dissenso negato c'è solo la parvenza e a volte neanche quella. Prendiamo Bologna. Una manifestazione indetta in concomitanza con l'inaugurazione dell'anno accademico è degenerata nei soliti tafferugli nonostante gli organizzatori avessero ottenuto un (non dovuto) diritto di tribuna durante la cerimonia. I loro rappresentanti hanno preso la parola di fronte alle autorità, hanno disteso una kefiah sotto il naso del ministro e, sventolando una bandiera palestinese, hanno fatto il loro breve comizio, insultando il rettore, accusato, nientemeno, di avere le mani sporche di sangue. E quelli in piazza? Ovviamente se ne sono infischiati dell'accordo stipulato e hanno tentato di forzare la mano per interrompere ugualmente la cerimonia. Alla loro testa, come sempre, i collettivi di estrema sinistra (sarebbe bello sapere quanti di questi signori non più giovanissimi sono davvero studenti universitari e quanti agitatori di professione). Sputi e insulti alla polizia, lancio di oggetti. Il consueto repertorio. La polizia li ha fermati e loro che hanno fatto un secondo dopo e nei giorni successivi? Hanno gridato al dissenso negato, occupando di rimando il rettorato. E' uno schema che nelle nostre università si ripete ciclicamente. Oggi è Israele, ieri era un convegno organizzato da un esponente di Fratelli d'Italia, l'altro ieri le lezioni di un illustre politologo, più volte interrotte con metodi squadristici. Allora sorge un dubbio: forse nel vocabolario di questi ragazzi la parola dissenso ha un significato diverso da quello comunemente inteso. Magari pensano che chiunque non sia d'accordo con loro e non si sottometta ai loro diktat stia soffocando il dissenso. Ma in democrazia dissentire significa manifestare pacificamente un'opinione diversa da quella di chi governa, sperando di ribaltare la situazione. Con un particolare non di poco conto: chi governa (nel nostro caso rettore e Senato accademico) è eletto e quindi legittimato a governare secondo le regole. Quando la minoranza pretende che i rappresentanti della maggioranza si pieghino al suo volere, non si chiama dissenso. Si chiama prevaricazione.