
di Valentina Reggiani
I ricorsi sono stati rigettati e per la famiglia Bianchini le condanne sono diventate definitive e si apriranno subito le porte del carcere. E’ questa la decisione arrivata ieri nel terzo e ultimo atto del processo Aemilia, quello della Cassazione, dopo oltre quindici arringhe da parte degli avvocati e parecchie ore di ‘ritiro’ della corte in Camera di Consiglio. Quindi le condanne restano le stesse pronunciate a dicembre 2020 dalla corte di appello nel maxi processo Aemilia, che aveva di poco alleggerito le pene per i tre modenesi rispetto a quelle pronunciate in primo grado.
Per l’imprenditore di San Felice Augusto Bianchini la corte aveva deciso una condanna a 9 anni anziché 9 anni e 10 mesi, confermando in sostanza l’impianto accusatorio che contestava all’uomo il concorso esterno in associazione mafiosa. Pene dimezzate invece per i familiari, la moglie Bruna Braga e il figlio Alessandro, condannati rispettivamente a 2 anni e 2 mesi e 1 anno e 6 mesi. E queste sono quindi le condanne confermate ieri dalla Suprema corte. Sulla famiglia Bianchini è calata subito la nube della disperazione.
La sentenza arriva dopo sette anni da quel 28 gennaio 2015, quando le forze dell’ordine misero a soqquadro Brescello e non solo, aprendo uno squarcio indelebile sul mondo dell’ndrangheta nel nord Italia: 87 gli imputati, 31 dei quali accusati di associazione mafiosa, tra cui appunto il costruttore modenese al quale è stato contestato il concorso esterno.
Il sostituto procuratore generale aveva analizzato i singoli ricorsi degli imputati e per quanto riguarda Augusto Bianchini, aveva dichiarato manifestamente infondati i motivi del ricorso; anche quelli relativi appunto al concorso esterno in associazione mafiosa. La corte di Appello, nel motivare la sentenza, aveva sottolineato infatti come il concorso esterno fosse inconfutabile: "Per avere concretamente contribuito, pur senza farne parte, al rafforzamento, alla conservazione e alla realizzazione degli scopi dell’associazione mafiosa". Il sostituto procuratore generale aveva quindi dichiarato inammissibili anche i ricorsi del figlio Alessandro e della moglie Bruna Braga e ieri la corte ha ‘sposato’ la tesi dell’accusa rigettandoli.
"Cosa mi fa più male? – aveva dichiarato all’epoca Bianchini – Il fatto che si possa giudicare la vita di un uomo, di una famiglia senza valutare oggettivamente cosa sia accaduto nella vita di questa famiglia e quanto un eventuale episodio possa averla condizionata. Su di me ho vissuto l’umiliazione, l’indifferenza del prossimo al quale non importa la tua verità". Bianchini era stato però prosciolto dal reato di caporalato.
"Probabilmente in un periodo di difficoltà economica, o forse anche per bramosia di maggiori guadagni, ha ceduto alla tentazione di scendere a patti con la ‘ndrangheta". Erano queste le parole con le quali i giudici della Corte d’appello di Bologna avevano motivato la condanna a nove anni dell’imprenditore. "Bianchini – si leggeva poi nelle motivazioni del collegio – ha messo in atto le sue condotte criminali trattando con gli ‘ndranghetisti da pari a pari, intraprendendo affari con la ‘ndrangheta nella piena consapevolezza che, perseguendo il proprio interesse, realizzava però anche quello della criminalità organizzata impiantata oramai nel territorio emiliano, accrescendone il grado di infiltrazione nel tessuto economico e con ciò il prestigio". Secondo la corte il modenese era un imprenditore di notevolissimo rilievo e soprattutto, a differenza degli altri imprenditori, poteva offrire grandi occasioni di partnership e di guadagno per il sodalizio criminoso. Ieri l’ultimo atto del grande processo con la conferma delle condanne per la famiglia modenese