
Beppe
Zagaglia
Leopardi, l’Infinito. A Recanati sul colle dell’infinito: ‘Sempre caro mi fu quest’ermo colle…’ erano quattro ragazzini che recitavano assieme, all’unisono la poesia mentre io stavo lì a guardare e a scattare quella fotografia che non trovo più e in silenzio recitavo con loro: ‘E questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude…’ e pensavo al mio colle, alla siepe della mia vita quando studiavo quella poesia, a quando preparavo l’esame di maturità. Appoggiavo i libri e mi perdevo nel raggio di luce che filtrava dalle persiane e si spostava sul muro della mia piccola camera e cambiava colore per finire nel buio mentre leggevo e ripetevo. Sognavo avventure, i libri, i film, sognavo la ragazzina che avevo visto a maggio, e avevo rivisto sempre accompagnata dalla madre, ma soprattutto pensavo all’esame, la matematica e l’algebra, il greco e il latino, l’Iliade. ‘Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei…’, ma Achille non mi era simpatico, perché immortale, quindi parteggiavo per Ettore che era umano e combattevo con lui la battaglia attorno alle mura di Troia, ma il fato, si doveva compiere e mi perdevo nei sogni, mentre il prof. Roteglia ci leggeva Omero e si emozionava con Zeus tonante, regale, folgorante e anche lui era tremendo come Giove con chi non sapeva i verbi greci. Pensavo all’esame di Filosofia, alla Critica della ragion pura di Kant e a come ce l’aveva insegnata il prof. Baldini, un grande personaggio con una mano di legno e una gran barba. E la fantasia volava, oltre il muro, alla siepe dov’era il mio mondo, la montagna di Monteombraro dove avevo vissuto da bambino gli anni di guerra, anni tragici, ma anche in contatto con la natura. L’inverno freddo con tanta neve e la primavera con gli alberi che si muovevano nel vento, e l’erba che si alzava e abbassava creando onde che si perdevano all’orizzonte e il silenzio era profondo.