"Addio alla Dakar, ma si impara anche così"

Il faentino Jader Giraldi si è dovuto ritirare dalla gara a causa di una caduta l’8 gennaio. "Lo sport per me è un viaggio introspettivo"

"Addio alla Dakar, ma si impara anche così"

"Addio alla Dakar, ma si impara anche così"

La seconda Dakar del pilota faentino Jader Giraldi è finita dopo appena pochi giorni. Una brutta caduta nel corso della terza tappa è costata al motociclista, che gareggiava nella categoria Malle Moto, il ritiro definitivo dalla competizione.

Giraldi che cosa è successo esattamente lo scorso 8 gennaio?

"Sono incappato in una caduta. La tappa era dura e lunghissima, da quasi 500 chilometri. Purtroppo un grande trauma mi ha impedito di proseguire. Dopo pochi minuti è arrivata un auto che mi ha aiutato a rialzarmi in piedi ma non riuscivo proprio a proseguire quindi la mia Dakar si è interrotta lì. E’ una gara pericolosa e queste cose nel Motorsport possono capitare".

Si è dato delle risposte sulla caduta?

"Viaggio a velocità di sicurezza, e per questo arrivo anche a notte inoltrata. Probabilmente sono caduto anche perché nell’ultimo mese per colpa di un problema a un occhio non sono riuscito ad allenarmi bene e arrivavo alla fine delle tappe molto stanco. Con la stanchezza si è meno pronti con i riflessi, l’inconveniente è arrivato probabilmente anche per questo".

Dopo la caduta ha affidato le sue prime impressioni ad un lungo post, fissando anche delle responsabilità a se stesso. Perché?

"Bisogna sempre analizzare ciò che succede. Io non credo nella fortuna o nella sfortuna, ci possono essere anche quelle ma in uno sport di competizione anche il rischio si deve calcolare. In una gara come questa si è iper reattivi se c’è stata una buona preparazione. La mia non è stata perfetta quest’anno per un problema clinico ad un occhio, non per colpa mia ma di fatto nell’ultimo periodo le circostanze mi hanno impedito una corretta preparazione. Resta comunque il fatto che non sono un professionista e che la Dakar è totalizzante: sapevo che le prime 3 giornate sarebbero state selettive e così è stato. Nella mia categoria infatti si sono ritirati il 50% dei partecipanti".

La prima Dakar l’ha conclusa, la seconda invece no. C’è rammarico?

"No, perché ho fatto tutto ciò che potevo e non c’erano le condizioni per fare di più. Per me la Dakar non è una sfida professionale ma resta nell’ambito di una sfida legata a una passione. Non sono dispiaciuto per il risultato, perché comunque ho imparato qualcosa: ci sono elementi che avevo sottovalutato quindi è stata un’esperienza di apprendimento nonostante il fallimento".

Perché parla di fallimento, comunque arrivare a correre una Dakar non è un successo?

"Indubbiamente, ma credo che dobbiamo imparare valorizzare i fallimenti, non tanto nella dimensione delle emozioni negative quanto piuttosto come analisi che ci consentano di essere più pronti nel riaffrontare una prova come questa".

Si spieghi meglio.

"Io ho chiamato il mio progetto ‘Dealing with unexpected’, letteralmente allearsi con l’inaspettato. In questi 3 anni di gare anche di qualifica ho sviluppato l’abitudine a gestire le situazioni che non mi aggradano o che non sono previste, facendo tesoro dell’esperienza per sviluppare capacità, competenze e stati d’animo. Sono caduto, sono rientrato e la mia testa è già partita con altri progetti".

Il primo pensiero quando è caduto?

"Che non ci voleva. Mi sono chiesto ‘come faccio a finire la tappa?’ Dopo essermi rialzato ho sperato di non essermi il femore rotto. Dopo mi ha chiamato la sicurezza e mi ha chiesto se volevo l’assistenza medica con l’elicottero. Ho preso tempo e ho capito che non riuscivo ad andare avanti, quindi razionalmente mi sono ritirato chiamando il medico"

Ha pensato anche alla sua famiglia?

"Ho pensato a loro e a tutti quelli che mi seguivano con il live trekking. Quando sono salito sull’elicottero gli ho mandato un messaggio"

Cosa ha scritto?

"’Sono caduto, sto bene, mi sono ritirato’. Giusto per non farli preoccupare"

Quando è rientrato cosa le hanno detto i suoi familiari?

"Niente, erano dispiaciuti. Mia moglie mi ha chiesto se col senno di poi l’avrei rifatta questa seconda Dakar"

E lei cosa le ha risposto?

"Assolutamente sì, perché ho fatto tesoro di tanti aspetti che nella prima Dakar non avevo focalizzato bene. Per me questo sport è un viaggio introspettivo più che una gara, non avevo bisogno di un badge, è stata la voglia di mettermi in gioco, esattamente come fare la 100 chilometri del Passatore per un romagnolo o qualsiasi altro tipo di attività che presuppone disciplina".

Scriverà un secondo libro sulla Dakar?

"No, ma adesso sto ragionando su Motorplay, l’evento che si è tenuto a Faenza lo scorso anno. La prossima edizione è già prevista in accordo col comune di Faenza a luglio. Mi dedicherò a quello".

Chiude definitivamente quindi l’esperienza Dakar?

"Mi sono già arrivate richieste di sponsorizzazione per la prossima Dakar. Ora non posso dire che la farò, ma non posso nemmeno dire il contrario (ride)".

Prima della partenza ha presentato il casco con un messaggio chiaro contro la violenza di genere. Ha avuto feedback sul tema?

"E’ stato interessate l’impatto che quel messaggio ha avuto. Anche la Federazione Motociclista Italiana ha aderito a questa iniziativa, e in Arabia Saudita è stata occasione di dibattiti tra piloti ed addetti ai lavori".

Damiano Ventura