La pesca di una volta nel capanno di Punta Marina

Ricordi di estati in campagna: ozio, letture, aiutare i nonni, pescare al capanno di Punta Marina. Uno sguardo al passato e al declino della ricchezza ittica, oggi sostituita da specie estranee come il granchio blu, segno del disastro ambientale verso cui siamo diretti.

Me le ricordo, le estati in campagna. I lunghi mesi di vacanze scolastiche che parevano non finire mai, salvo poi ritrovarmi a settembre con i compiti estivi da fare e i giorni oramai agli sgoccioli. Me le ricordo prive di zanzare diurne e scarse le notturne, gratificanti nell’ozio dedicato alle letture dei miei Maigret all’ombra della vite d’uva regina, nell’aiutare i nonni in operazioni umili quali spigolare i fagiolini, essiccare i ceci, andar a fontana d’acqua pissulina col bidoncino d’alluminio e portarlo a casa gocciolante di condensa. Me le ricordo nei pochi giorni trascorsi al capanno di Punta Marina – era davvero un capanno, due metri per due, per ricoverare zerlini e reti – a pescare nelle basse acque della riva. Cadevano in trappola pesci da frittura, qualche granchio di minuscole dimensioni, i gusci vuoti delle poveracce, i tubercoli spinosi di quel predatore che è il murice, i cornetti affusolati dei campanili e le lame da rasoio dei pettini. A volte cascavano in trappola dei cefaletti giovani, ed era festa grande. Tutto questo a pochi metri dalla battigia, in una ricchezza ittica a cui s’era abituati e della quale nessuno avrebbe previsto il declino. Correvano i primi anni Sessanta, e anche il mondo correva. Quello italiano poi faceva pure rumore, tant’è che si parlava di boom. Eppure, come occorre l’occhio clinico per cogliere i segni che ogni malattia rilascia nel corpo, anche allora si sarebbe dovuto notare che l’incredibile patrimonio ittico degli anni precedenti già s’era intaccato. Nel ’45 il nostro pescato erano acquadelle, saraghine, scardole, gamberetti; le fritture vedevano merluzzetti, trigliozze, soglioline, suaci, figore, busbane e testoline; poi seppie e seppiette, passere, razze, merluzzi, sogliole; e infine, ai prezzi più stracciati, i mitili in cui primeggiavano al pavraẓe, le poveracce: e questo era un mondo a parte in quel mondo che correva. Sì, c’erano ancora i poveri e quindi i poveracciai, i raccoglitori di poveracce che, dopo averle colte, tornavano in città per venderle. Oggi facciamo i conti con un pescato d’importazione e l’affacciarsi di specie estranee come l’ormai famoso “granchio blu”, una sorta di Attila estremamente aggressivo, prolifico e invasivo. Anche questo è un segno, purtroppo negativo, del disastro ambientale verso cui, a onta di chi nega, siamo diretti. Hai voglia di mangiarne dei granchi blu, hai voglia.

Paolo Casadio