"Non sono razzista, ero arrabbiato. Quei ragazzini hanno pestato mio figlio"

Il 43enne di origine partenopea, imputato per istigazione a delinquere per motivi razziali, si è difeso. Per il 15enne e il 16enne accusati di avere alzato le mani è stato chiesto il rinvio a giudizio per lesioni.

"Non sono razzista, ero arrabbiato. Quei ragazzini hanno pestato mio figlio"

"Non sono razzista, ero arrabbiato. Quei ragazzini hanno pestato mio figlio"

Si è difeso, ammettendo di avere avuto uno scatto d’ira davanti a quei due fratelli di 15 e 16 anni, di origine marocchina (per cui è stato chiesto il rinvio a giudizio per lesioni al Tribunale dei Minori di Bologna), che "venivano a casa mia e poi hanno picchiato mio figlio e offeso mia moglie" ma ha respinto tutte le accuse che lo vedono imputato per minaccia e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. L’uomo, un 43enne di origine partenopea, difeso dall’avvocato Raffaella Salsano, ieri mattina in tribunale a Ravenna ha ripercorso i precedenti e l’episodio, avvenuto il 14 settembre 2021 in un paese della Bassa Romagna. "Venivano a casa mia – ha raccontato davanti al giudice Tommaso Paone e al vice procuratore onorario Simona Bandini –, hanno conosciuto mia moglie. Poi mio figlio ha iniziato a essere agitato, tornava a casa con le guance rosse: lo portavano in posti isolati e lo picchiavano. Queste cose le ho vissute io da piccolo e quindi capisco. Mio figlio non ha raccontato subito quello che era successo: uno dei due fratelli (difesi dall’avvocato Matteo Paruscio, ndr) gli ha dato un pugno sulla guancia". Su quel 14 settembre il 43enne ha detto che "mia moglie mi ha raccontato che quei ragazzini avevano dato un altro pugno a nostro figlio. Così ho deciso di andare a casa loro con mia moglie ma nessuno ci ha aperto, quindi siamo andati via. Poi sono uscito per pagare una fattura e ho rivisto i ragazzini, anche fuori dal cimitero con un amico. Io ero con il furgone insieme a mio figlio e mi sono fermato. Ho detto a quei ragazzini: “Fatemi vedere come lo picchiate“. Mio figlio ha preso un manico di scopa dal furgone e io mi sono arrabbiato, non volevo li picchiasse. I ragazzini mi hanno detto “Chi sei tu? Superman?“". Sulle accuse di razzismo il 43enne ha precisato che "se io fossi stato razzista i ragazzini non sarebbero venuti a casa mia e hanno anche chiamato prostituta mia moglie, oltre ad avere sempre detto di essere cugini e non fratelli". Sulle frasi razziste per cui l’uomo è a processo (“Picchia i marocchini, loro devono tornare a casa. Il Marocco non è qua“, “Se fossi stato in mio figlio vi avrei già tagliato la gola“) il 43enne ha negato di averle mai pronunciate e ha pure negato di avere detto al figlio di prendere un martello per picchiare i coetanei di origine straniera.

Poi ieri in tribunale è stata sentita la psicologa della Neuropsichiatria infantile che ha conosciuto l’imputato, la moglie e il figlio e ha precisato che "la famiglia si è rivolta a me con urgenza perché il bimbo era stato aggredito ripetutamente da coetanei. Dai test e dai colloqui il ragazzino era orientato, brillante e con un livello cognitivo medio-alto. Certo, in quel periodo aveva una fragilità emotiva con un’ansia da separazione dai genitori alta. Il rapporto col padre era assolutamente buono, per lui era un punto di riferimento". L’avvocato Paruscio ha puntato l’attenzione su un passaggio di una relazione della psicologa in cui si legge che nel ragazzino si evinceva un “desiderio di compiacere le aspettative paterne“ ma, come ha precisato la professionista, "in senso positivo".

Infine la moglie dell’imputato, una 43enne anche lei di origine partenopea, ha raccontato di avere accolto in casa quei due ragazzini di origine marocchina che si erano presentati come cugini, con cui inizialmente il figlio era contento di avere fatto amicizia. Poi le cose erano cambiate: "Mio figlio tornava a casa zoppicando, un giorno anche con la faccia gonfia e tutto inzuppato. Subito mi raccontò che aveva giocato a pallone con gli amici ma io avevo un po’ di dubbi. Così mio figlio aveva raccontato che non voleva più uscire con quegli amici". La donna ha poi ripercorso quel 14 settembre quando, all’uscita da scuola, vedendo il figlio con la faccia gonfia aveva rimproverato uno dei due fratelli accusato di averlo picchiato. Poi si era recata a casa dei due ragazzini stranieri e qui questi ultimi l’avevano aprostrofata come "prostituta". Anche per questo la 43enne aveva giustificato l’ira del marito, descritto come "dolce" in famiglia: "Ci stava che fosse arrabbiato perché avevano chiamato la moglie prostituta e picchiato il figlio".

Milena Montefiori