Quando i condizionatori non esistevano E si aguzzava l’ingegno

Se ai miei vecchi avessero raccontato che un giorno ci sarebbero stati i condizionatori e la possibilità di avere fresco d’estate non solo non ci avrebbero creduto, ma se ne sarebbero chiesti la necessità. Ricordo la permanente frescura estiva della casa dei nonni, ed era il frutto di una consolidata esperienza. Non che il fabbricato avesse i particolari pregi costruttivi che le nostre case coloniche possedevano e possiedono, affidando a murature molto spesse l’incarico di far volano termico ovvero incamerare caldo e freddo da restituire alla bisogna. La differenza, però, era in una oculata gestione delle finestre, spalancate di notte e sigillate di giorno, e persiane chiuse a lasciar trapelare luce di riflesso tra le stecche.

La casa viveva in una penombra continua e non vedeva alcuna attività che producesse calore: la cucina estiva, chiamiamola così, era alloggiata in un bassocomodo esterno e realizzata con un fornello a bombola soprannominato e’pipigas. Si trattava di un fornello a tre fuochi, mutuato dalla marca “Pibigas” che negli anni ’50 propose l’economico manufatto. Bastava per cucinare tutto, poiché i forni domestici non esistevano ancora e, se necessario, si portava a cuocere il cibo al forno del paese. Del resto, d’estate il menù prevedeva tagliatelle e soffritto, quest’ultimo tirato a fuoco lentissimo e con un parfòm che innamorava l’aria. Nel letto s’usavano materassi stagionali rigorosamente fatti a mano, lato lana per l’inverno e lato crine per l’estate, e lenzuola di canapa d’un ruvido fresco che mai faceva sudare, e se ho un rimpianto è d’averle perse nella babilogna tra gli eredi susseguita alla morte di mia nonna. Perse, insomma: qualcuno se l’è portate via, e vai a sapere chi.

Per tutte le necessità sanitarie e orticole suppliva il pozzo di mattoni abbinato all’impianto d’autoclave: la falda era alta e fredda, quasi glaciale, e siccome il frigorifero era un lusso ci ammollavano cocomere e sporte di fiaschi di trebbiano a diventar fresche. Per bere s’usava l’acqua pissuléna, spillata gelida – da spaccare i denti – alla fontana artesiana e conservata in un capace bidone d’alluminio. La doccia serale si consumava nello stesso bassocomodo uso cucina, e l’acqua calda proveniva da damigiane spogliate della camicia di vimini e lasciate una giornata al sole: il vetro scuro favoriva l’assorbimento del calore e una temperatura di servizio perfetta.

Paolo Casadio