Ravenna e la lotta contro i fiumi Una storia secolare

Prima della diversione dei Fiumi Uniti, opera voluta dal cardinale Giulio Alberoni, Ravenna era continuamente sotto minaccia di inondazioni. Di queste, una delle più tristemente famose fu quella che dopo sei giorni di pioggia flagellò la città nella notte fra il 27 e il 28 maggio del 1636. In una piccola lapide murata in via Salara, all’angolo con la via Cavour, si legge infatti: "Adì 28 maggio 1636. Sin qui l’acqua arrivò". Scrive Guido Umberto Majoli che anche Corrado Ricci aveva fatto segnare sullo stipite sinistro della porta del Battistero Neoniano il livello raggiunto dall’acqua (m. 2.10) e questo segno, benché fosse fatto con un lapis, fu sempre ben visibile perché Arrigo Savini, un pensionato della Sovrintendenza, provvedeva di tanto in tanto a ripassarlo! Anche i monaci di San Vitale provvidero a collocare un segno raggiunto dal livello delle acque (m. 2.74) e anche se oggi non è dato sapere in quale punto della basilica fosse stato collocato, resta comunque il testo della lapide che, in lingua latina, recitava così: Neppure le cose sacre trattennero il volgere dell’onda fin qui: Viandante, prega che i nostri fiumi abbiano a scorrere sempre placidi".

Un altro segno dell’acqua era stato collocato a circa un metro di altezza in un vicoletto del borgo San Rocco. Ma il segno più evidente, ancora oggi ben visibile, è il “guasto” che si vede nella parte inferiore del grandioso affresco delle “Nozze di Cana” di Luca Longhi nella Sala Dantesca della Biblioteca Classense. Le acque trasformarono le vie cittadine in fiumi in piena e misero a dura prova la struttura delle abitazioni, molte delle quali dovettero sottostare alla furia delle acque. Furono distrutte totalmente 140 case, 320 crollarono parzialmente e 250 richiesero adeguate puntellature. Il livello dell’acqua superò ben presto i pianterreni e chi non aveva la disponibilità del primo piano, situazione comune per la maggior parte delle abitazioni, si vide costretto a sfondare i soffitti per portare in salvo familiari e suppellettili sui tetti, nella speranza che il livello delle acque non crescesse ulteriormente.

Intanto, alle prime luci del giorno, barche di tutte le dimensioni per un giorno e mezzo provvidero alla evacuazione quasi completa della città in preda al panico. La gente si calava giù dalle finestre usando lenzuola annodate, funi e scale. Non pochi erano in camicia e qualcuno addirittura nudo! Dopo tre giorni le acque defluirono liberando la città dall’incubo. Volesse il cielo che accadesse così anche oggi!

Franco Gàbici