ALESSANDRA CODELUPPI
Cronaca

Delitto di Juana Cecilia. “Genco voleva ucciderla e l’ha umiliata”

Le motivazioni della sentenza d’Appello ricalcolata a 30 anni di reclusione. “La pugnalò, privando il bambino, che peraltro diceva di amare, della madre”

L’aguzzino di Juana Cecilia Hazana Loayz, il suo ex Mirko Genco

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Reggio Emilia, 19 gennaio 2024 – “Mirko Genco è una persona giovane, che ha forse una prospettiva di presa di coscienza e di cambiamento, seppure non potrà che passare attraverso un articolato percorso di recupero che sarà necessariamente complesso e doloroso». Nelle motivazioni della sentenza di secondo grado sull’omicidio della 34enne Juana Cecilia Hazana Loayza, madre di un bambino uccisa dal suo ex fidanzato il 30 novembre 2021 nel parco di via Patti, si offre una visione molto articolata della vicenda del 27enne. In primo grado era stato condannato a 29 anni e 3 mesi; poi la Corte d’Assise d’Appello ha rideterminato in 30 anni (con la pena per evasione ricalcolata in 8 mesi). È stato assorbito il reato di tentato omicidio in quello di omicidio: «Tutta la condotta era finalizzata a uccidere».

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La vittima Juana Cecilia Hazana Loayz
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Ed è stata riconosciuta la responsabilità per rapina, cioè per aver preso le chiavi dalla borsetta mentre lei era esamine a terra, per poi salire in casa e prendere il coltello con cui lui la finì. Il pm Maria Rita Pantani, e poi anche in Appello, il sostituto procuratore generale Antonella Scandellari, avevano chiesto l’ergastolo. Per Pantani le attenuanti generiche non dovevano essere riconosciute, mentre per il pg Scandellari dovevano essere subvalenti alle aggravanti. La difesa è stata rappresentata prima dall’avvocato Alessandra Bonini e in Appello dall’avvocato Vincenzo Belli. La Corte di Bologna, presieduta dal giudice Orazio Pescatore, consigliere Anna Mori più i membri popolari, mette nero su bianco la problematicità della storia. «Incapace di accettare la decisione della donna, Genco ne violò la sfera sessuale nel peggiore e più umiliante dei modi. Nel frattempo la aggredi, le strinse il collo, le fratturò l’osso ioide, le rubò le chiavi ed entrò nella sua casa, incurante della presenza della madre di Juana Cecilia e soprattutto del figlio piccolo. Infine la pugnalò, privando il bambino, che peraltro diceva di amare, della madre». Il tutto «al termine di un iter giudiziario in cui all’imputato era stata data una possibilità di recupero che lui non seppe cogliere, dimostrandosi, oltre che crudele, inaffidabile»: il riferimento è al fatto che pochi mesi prima dell’omicidio, Genco aveva stalkerizzato la 34enne, poi patteggiò con pena sospesa purché facesse un percorso di recupero, a cui però non si presentò. Sul piano processuale, «è di particolare rilievo che alcuni reati, in primis la violenza sessuale, non sarebbero mai stati scoperti senza la confessione dell’imputato, che consegnò alle forze dell’ordine anche la registrazione utile ad accertare i fatti. E poi Genco, attraverso il difensore, acconsentì all’acquisizione di atti rendendo più celere il processo». Poi c’è la storia personale di Genco, «effettivamente terribile e contrassegnata da abbandoni e infine dall’uccisione della madre a opera del compagno. Ciò non ne sminuisce la responsabilità: Genco è capace di intendere e volere, e poteva scegliere un comportamento diverso, ma partiva da un’estrema difficoltà».