Denunciata dai datori di lavoro: "Dipendente a casa in malattia vende cosmetici in spiaggia"

Una donna andrà a processo per truffa ai danni dell’azienda in cui è assunta perché accusata di aver finto uno stato di stress per poi commercializzare prodotti negli orari di visita fiscale.

Spiaggia di Rimini, foto generica

Spiaggia di Rimini, foto generica

Rimini, 2 marzo 2024 – Una condizione di stress lavorativo acuto, subentrata durante il periodo del lockdown, seguita da uno stato ansioso reattivo. Questo il motivo che ha tenuto l’impiegata di una ditta riminese lontana dal luogo di lavoro per circa cinque mesi, da marzo a ottobre del 2020.

Un’assenza che la donna ha giustificato esibendo le certificazioni del proprio medico a seguito di una consulenza svolta nel centro di salute mentale di Rimini. I datori di lavoro dell’impiegata hanno però ritenuto che quella malattia fosse in qualche modo sospetta, anche perché dopo la cessazione della pandemia la donna non ha più fatto rientro in ufficio, pur percependo lo stipendio. Per questo motivo hanno dato mandato a due agenzie investigative di tenere d’occhio la lavoratrice. Scoprendo così, che nel periodo di malattia, la dipendente si sarebbe dedicata alla vendita di prodotti di bellezza, trascorrendo il proprio tempo in spiaggia o al ristorante con amici anche durante gli orari di visita fiscale.

Motivazioni che hanno spinto l’azienda, assistita dagli avvocati Paolo Righi e Alessandro Pierotti (in foto), a presentare querela, ipotizzando una serie di reati, che vanno dalla truffa ai danni della società e degli enti previdenziali e assistenziali (Inps e Inail), ma anche il falso ideologico indotto per le certificazioni mediche rilasciate dai sanitari in suo favore.

Ha avuto così inizio una battaglia legale che si trascina ormai da anni e che, nei prossimi mesi, approderà nelle aule del tribunale di Rimini. Il fascicolo è finito sul tavolo della Procura che, dopo aver svolto indagini sulla vicenda, ha presentato una richiesta di archiviazione, ritenendo che la donna non abbia simulato la sua malattia, come del resto certificato dal medico e dagli esperti del Centro di salute mentale. L’impiegata aveva inoltre la possibilità di uscire di casa fuori dagli orari previsti dalle visite di controllo. Per quanto riguarda la vendita di prodotti, si sarebbe trattato di una collaborazione occasionale. Gli avvocati Righi e Pierotti si sono però opposti all’archiviazione, sostenendo che il medico di base non avesse gli strumenti per poter diagnosticare un problema di tipo psichiatrico: le certificazioni e la prescrizione di farmaci - sostengono i legali - si sarebbero dunque basate esclusivamente su quanto riferito dalla stessa indagata, la cui attendibilità viene messa in dubbio dai datori di lavoro. Sempre secondo i legali, risulta difficile credere che la donna abbia sviluppato uno "stress lavorativo acuto" proprio nel periodo in cui, a causa del lockdown, ogni attività lavorativa era stata completamente sospesa. Il gip del tribunale ha giudicato ammissibile l’opposizione, disponendo dunque l’imputazione coatta dell’impiegata.