FRANCESCO ZUPPIROLI
Cronaca

Dietro la banda della Uno Bianca. La sopravvissuta all’attentato: "Noi, vittime del terrorismo"

Francesca Gengotti, ferita nella rapina alla Coop del 1988, parla della nuova inchiesta: "Ci fossero dei mandanti oppure no, lo status ci viene riconosciuto a prescindere".

Dietro la banda della Uno Bianca. La sopravvissuta all’attentato: "Noi, vittime del terrorismo"

Dietro la banda della Uno Bianca. La sopravvissuta all’attentato: "Noi, vittime del terrorismo"

Uno scoppio. Come quello di un petardo. Non un fuoco di artificio ma uno sparo, il primo di una lunga serie che alla Coop delle Celle uccise la guardia giurata Giampiero Picello e ferì gravemente Francesca Gengotti e la mamma. Di là dalla canna di fucile che quasi tolse la vita a Francesca quando aveva ancora nove anni c’erano i fratelli Savi. La banda della Uno Bianca, che proprio in quel supermercato arroccato sull’asflato della via Emilia il 30 gennaio del 1988 fece la prima delle sue 24 vittime. L’inizio di un racconto dell’orrore che ancora riecheggia nelle aule della Procura di Bologna, da dove è partito e continua il nuovo filone d’inchiesta che mira a svelare presunte trame terroristiche dietro ai delitti della banda. Delitti raccontati ora anche nel podcast in otto episodi dove il giornalista Antonio Iovane ricostruisce quegli anni di terrore a cavallo di Emilia-Romagna e Marche. "Uno Bianca – Il romanzo criminale dell’Emilia-Romagna" è il podcast in cui, in questi giorni, è intervenuta anche la stessa Gengotti, che a quella macelleria da oltre cento crimini è sopravvissuta per raccontarlo.

Francesca, dietro la Uno Bianca c’era solo la targa o crede che l’ipotesi di una matrice terroristica con tanto di mandanti sia plausibile?

"A prescindere da ciò che diranno le indagini, io dico che noi ’vittime della Uno Bianca’ siamo già ’vittime del terrorismo’. Più di una analogia, ma un vero e proprio codice di esenzione che ci viene riconosciuto e che, in quanto vittime di terrorismo appunto, ci rende iscritti alle categorie protette oltre a una serie di esenzioni per esempio in ambito medico-sanitario".

Quindi ritiene che alla base dei delitti dei Savi potesse esserci qualcosa di più rispetto alla sola sete di violenza?

"Non è qualcosa che cambierà la sostanza di quanto accaduto. Di tutto il male che hanno fatto. Comunque andrà a finire".

Ma cosa pensa del fatto che indagini vecchie di anni tornino ora alla luce con l’intento di svelare nuovi particolari, per quanto tremendi, di quella brutta storia?

"Ammetto che la dietrologia se esasperata non la capisco. Personalmente penso che anche questo filone d’indagine alla ricerca di mandanti andrà a finire in una bolla di sapone. Ma ripeto che, comunque vada, non cambierà ciò che quelle persone mi hanno fatto e hanno fatto in generale. Resterà sempre il fatto che fossero poliziotti. Ed è questo ciò che più mi fa rabbrividire a distanza di anni, con o senza mandanti".

E cosa prova nel pensare di essere stata, suo malgrado, protagonista di una delle pagine più nere della storia d’Italia?

"Quando rimasi ferita nell’attentato alla Coop ero troppo piccola per capire. E solo dopo anni quell’episodio rientrò nel mosaico di delitti di un singolo gruppo criminale. Diciamo che ogni volta che ne sento parlare in tivù alzo ancora il volume e se vedo un articolo sul giornale che ne parla non cambio certo pagina. Ma la sensazione di paura, come se potesse riaccadere, ho iniziato a provarla solo una volta diventata madre. Rendendomi conto che quel 30 gennaio dell’88 è toccato a me, ma a distanza di anni potrebbe di nuovo toccare a chiunque. Ero al supermercato con i miei genitori. Teoricamente, al sicuro".

Cosa ricorda di quei momenti terribili?

"Tutto. Mi ricordo tutto – rimarca con decisione e voce ferma Francesca Gengotti –. Avevo nove anni, ma è come se fosse successo ieri. Ricordo lo scoppio come di un petardo. Mio padre che urlava "tutti giù, sparano!". E poi mia mamma che mi tocca la testa dietro l’orecchio ed è ricoperta di sangue, mentre io riuscivo a sentire solo un fischio assordante".

Che altro?

"Ricordo il mio viso. Insanguinato e riflesso nel vetro del supermercato mentre mi trasportavano dentro e le commesse mi tamponavano la ferita con della carta asciugatutto".

E ogni volta che ci ripensa, cosa prova?

"Solo il desiderio che chi ha commesso quei crimini possa non uscire mai dal carcere".