IL VANGELO

La parabola degli agricoltori della vigna richiama la storia di Israele e parla alla nostra chiesa e a ciascun cristiano. Dio ci chiama a completare la sua opera secondo i carismi ricevuti, ma l'orgoglio e la concupiscenza possono occultare la verità.

Is 5, 1-7; Sal.79; Fil 4, 6-9; Mt 21, 33-43.

La parabola degli agricoltori della vigna, pronunciata nel tempio di Gerusalemme dopo che Gesù ne aveva scacciato i mercanti, richiama la storia di Israele tanto che la vite era da tempo immemorabile simbolo del popolo giudaico (cfr. Is 5,1-7). Per sua natura la parabola esprime anche la realtà di tutti gli uomini. Essa parla alla nostra chiesa e a ciascun cristiano. Siamo tutti impegnati nell’opera di Dio, identificabile nella protezione del creato, nelle professioni, nei luoghi di lavoro e della formazione. Solo una mentalità limitata li considera oggetto esclusivo della nostra intraprendenza. In realtà Dio si prende cura di ogni creatura, anche delle vicende della nostra vita, e ci chiama a completare la sua opera secondo l’intraprendenza dei carismi ricevuti. La velleità degli agricoltori di sottrarsi al rendiconto li conduce a rifiutare ogni appello alla ragionevolezza e perfino a premeditare l’omicidio del figlio del proprietario nella folle speranza di entrare per forza in possesso della sua eredità. Erano accecati dalla fertilità della vigna e dall’abbondanza del raccolto. Avevano scambiato la propria laboriosità in pretesa di impossessarsi del bene altrui. Un comportamento immorale, frutto della malvagità in radicale dissenso con gli interessi del proprietario. Il giudizio di condanna è consequenziale, come lo dimostra la reazione dei capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo, ai quali era rivolta la parabola: essi decretano la morte degli agricoltori malvagi e l’allocazione della vigna ad altri. Un giudizio che per Israele segna un punto di non ritorno: la benevolenza divina di cui è stato sempre circondato passerà ad altre popolazioni, che troveranno vita accogliendo Gesù. Israele ora deve percorrere lo stesso cammino di fede, perché si converta (cfr. Is 27,2-5), confidando nel Figlio di Dio che storicamente ha rifiutato di riconoscere. Rendere conto potrebbe essere la parola chiave della parabola: che l’uomo riconosca la propria giusta posizione nei beni, che gli sono messi a disposizione. Di nulla ci dobbiamo sentire padroni e destinatari definitivi. Siamo chiamati ad essere collaboratori, confrontandoci con il diritto del Creatore, il quale ci ha affidato la propria eredità. In essa non vi sono solo beni materiali e valori morali, ma soprattutto vi è suo Figlio, fatto uomo per restare tra noi con la missione di far presente la nostra associazione alla vita di Dio nell’esercizio dei doni ricevuti. Un compito non facile, in cui interferiscono l’orgoglio e la concupiscenza per occultare la verità, che vorremmo sempre scartare nell’illusione di renderci indipendenti.

P. Tiziano Pegoraro rci