Un olimpionico nel lager. Storia di Gino Ravenna, ginnasta ebreo deportato. Dai trionfi ad Auschwitz

Fu uno dei 29 atleti incaricati di rappresentare l’Italia ai giochi di Londra. I documenti emergono dall’archivio storico della Palestra Ginnastica Ferrara. Dal campo tornò solo il figlio, Il fratello Renzo fu podestà dal 1926 al 1938.

Un olimpionico nel lager. Storia di Gino Ravenna, ginnasta ebreo deportato. Dai trionfi ad Auschwitz

Un olimpionico nel lager. Storia di Gino Ravenna, ginnasta ebreo deportato. Dai trionfi ad Auschwitz

Un numero, il 174.541, ha marcato la vita di un ginnasta olimpionico ferrarese. Quello che lo ha indentificato al campo di sterminio di Auschwitz dove è stato ucciso nel 1944, deportato sul convoglio numero 8 dal campo modenese di Fossoli. Prima di allora, la storia di Gino Ravenna, nato a Ferrara il 30 agosto 1889, era stata segnata soprattutto da trionfi sportivi. In occasione della Giornata della Memoria, la Palestra Ginnastica Ferrara vuole rendere omaggio all’"unico olimpionico italiano morto ad Auschwitz": fu uno dei 29 campioni incaricati di rappresentare l’Italia nel concorso generale di ginnastica artistica a squadre ai giochi olimpici di Londra 1908, dove gli azzurri ottennero un buon sesto posto.

A ricostruire i fatti, in un documento che appartiene all’archivio storico della Palestra Ginnastica Ferrara, è Mirko Rimessi. Tutta la famiglia Ravenna era conosciuta a Ferrara e uno dei cinque fratelli di Gino, Renzo, fu podestà di Ferrara dal ’26 al ’38, uno dei due soli podestà fascisti di origini ebraiche in Italia prima dell’introduzione delle leggi razziali. A parte la rinuncia alla carica del fratello, le leggi razziali non causarono troppi problemi per l’attività commerciale e nemmeno nei rapporti sociali, benché anche fosse stato escluso, come tutti, da associazioni, circoli e, naturalmente, dal partito fascista.

Per Gino, come per tantissimi ebrei italiani, la vita si sconvolse l’8 settembre 1943. "Prima si rifugiò nella frazione di Albarea, ma l’arresto del figlio Eugenio, detto ‘Gegio’, l’8 ottobre fece precipitare gli eventi – racconta Rimessi –. Dopo aver provato invano di farlo scarcerare, la famiglia tentò la fuga in Svizzera ma, arrestati a Domodossola, finirono prima nel carcere di via Piangipane, per poi essere condotti, l’11 febbraio 1944, al tempio di via Mazzini 95, trasformato in campo di concentramento provvisorio per pochi giorni, in attesa che il nuovo rastrellamento degli ebrei ferraresi si tramutasse nel trasferimento a Fossoli".

Poi il viaggio atroce di quattro giorni verso la Polonia. Il figlio Gegio fu "uno dei soli cinque ebrei ferraresi sopravvissuti al campo di sterminio di Auschwitz, grazie alla liberazione russa del 27 gennaio 1945". Secondo la testimonianza di Eugenio, Gino era riuscito a restargli accanto lavorando per un mese e mezzo. "Per alcuni giorni rimase nella baracca – prosegue il racconto di Rimessi – ma al terzo giorno Gegio non lo trovò più. Un deportato che parlava italiano gli riferì che da poco Gino era stato prelevato. Prima di lasciare la baracca gli aveva raccomandato di dire al figlio che lo salutava e di tener duro. Solo che in quel terzo giorno il camino aveva ricominciato a fumare". Eugenio Ravenna farà ritorno a Ferrara il 15 settembre 1945; qui la sua vicenda ispirerà il cugino scrittore Giorgio Bassani, che lo ‘trasforma’ in Geo Josz nel suo racconto ‘Una lapide in via Mazzini’, inserendolo nelle ‘Cinque storie ferraresi’.