SERGIO GIOLI
Editoriale
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Famiglie nell’abisso

Alcuni giorni fa il tribunale di Ancona ha emesso una sentenza che riapre tante ferite. Una donna è stata condannata a risarcire le tre figlie di una coppia aggredita selvaggiamente il 3 luglio 2020 a Jesi: la moglie morì, il marito, ferito gravemente, si salvò.

L'assassino, figlio della donna condannata, affetto da una grave malattia psichica, era già stato prosciolto dall'accusa di omicidio volontario e di tentato omicidio per vizio totale di mente. La madre no, perché - ha stabilito ora il giudice - avrebbe dovuto vigilare sul giovane di cui conosceva bene la pericolosità, visto che lei stessa era stata costretta in passato a chiamare i carabinieri per salvarsi da una brutale aggressione. Fin qui i fatti. Perché dicevamo che questa sentenza riapre tante ferite? Perché di episodi come questo ne abbiamo raccontati a decine. E ogni volta abbiamo scritto di famiglie disperate alle prese con un paziente ingestibile che rifiuta la sua condizione di malato e quindi non vuole curarsi. Storie di violenza, di paura e di botte. Ma soprattutto di straziante dolore, perché vedere una persona a cui si vuole bene completamente trasfigurata fa male.

Alla sacrosanta chiusura dei manicomi non ha fatto seguito la costruzione di una rete di assistenza e di cura efficiente. Si ripetono le vicende drammaticamente simili di famiglie lasciate sole perché il servizio sanitario pubblico è inadeguato. Senza contare che costringere qualcuno a curarsi non è possibile se non dopo l'emissione di un trattamento sanitario obbligatorio, cosa tutt'altro che facile da ottenere. Ricordate Alice Scagni, la giovane mamma ammazzata nel 2022 dal fratello affetto da turbe psichiche? L'inchiesta ha accertato che la famiglia chiamò l'Asl ben 60 volte nei 45 giorni che precedettero il delitto per chiedere un intervento sul giovane Alessandro, evidentemente fuori controllo. Una telefonata al 112 ebbe la seguente risposta: "Cosa possiamo fare? Non lo avete mai denunciato, non possiamo mica arrestarlo". Sappiamo che anche la mamma di Jesi un giorno chiamò i carabinieri e sappiamo che anche suo figlio era seguito dal Centro di Salute mentale. Il giudice dice che ha sbagliato lei, e sarà certamente così. Ma resta l'amara certezza di un sistema che non funziona.