
Daria Bignardi (foto Claudio Sforza)
Bologna, 18 marzo 2021 - Tocca a Daria Bignardi tagliare il nastro. Sarà lei oggi alle 18 ad inaugurare in streaming, attraverso le pagine Facebook e You Tube di DamsdLab/La Soffitta, il ciclo di incontri con gli ‘allievi famosi’ del corso di laurea che quest’anno festeggia i suoi primi cinquant’anni. E che nei prossimi mesi ospiterà, tra gli altri, Paolo Fresu, Toni Servillo e Giovanni Lindo Ferretti. È questo il primo dei trenta appuntamenti messi in cantiere dall’università per celebrare l’anniversario del Dams. Oggi la scrittrice-giornalista-conduttrice televisiva dialogherà con i professori Gian Mario Anselmi e Luca Barra , introdotta dal direttore del Dipartimento Giacomo Manzoli. In quale anno e per quali ragioni scelse il Dams? "Sono di Ferrara e dopo il liceo classico, uno stupendo liceo classico sperimentale con professori straordinari soprattutto di italiano e filosofia, mi sono iscritta al Dams nell’81, indirizzo Spettacolo. Lo feci più per provocare i miei genitori che perché fossi interessata. In realtà mi piaceva soprattutto la letteratura, pensavo che avrei fatto l’insegnante di lettere come mia sorella". E che clima c’era? Che impressione ricavò? "Diedi solo alcuni esami, di estetica con il professor Nanni, di comunicazione di massa con Fabbri, di psicologia con la professoressa Mizzau. Mi piacquero molto ma non riuscii mai davvero a inserirmi, forse perché pendolavo in treno ogni giorno fra Ferrara a Bologna e non riuscivo a fare amicizie. Ricordo nella sede di via Guerrazzi le affollatissime lezioni di Umberto Eco, che frequentai anni dopo a Milano. C’era un clima alternativo che a me pareva un po’ finto, forse perché sarebbe piaciuto anche a me comprarmi il chiodo di pelle e le ‘Dr. Martens’ ma non potevo. Me ne stavo in disparte". Come mai abbandonò? "Principalmente perché mio padre si ammalò nel primo anno di università e morì tre anni dopo. Non ero serena. Anzi ero proprio disperata in quegli anni. Credo che avrei lasciato qualunque facoltà". Il valore aggiunto del Dams, almeno nei primi anni, stava in docenti celebri che non arrivavano dall’ambito accademico. Lei è legata nel ricordo a qualche professore? "Mi piacevano moltissimo le lezioni di comunicazione di massa di Paolo Fabbri che è mancato di recente. Mi è spiaciuto molto. Lo ricordo in jeans attillati, sorridente, brillante e disponibile. Non sembrava un professore". Alla luce della sua esperienza, il Dams è stato davvero una sorta di factory inconsueta della creatività? "Credo che per molti lo sia stato". Da quello che ricorda, che rapporto c’era fra la città e gli studenti? Esisteva diffidenza reciproca? E che Bologna era quella? "Non mi sembra che ci fosse diffidenza ma io, venendo da Ferrara, idealizzavo Bologna che mi sembrava una metropoli. Mi piacevano anche i gruppetti di punk che bivaccavano in piazza Verdi, la mensa e i tazebao sui muri. Mi sembrava tutto molto eccitante, anche se me ne sentivo distante. Avevo cose più urgenti di cui occuparmi". Il Dams voleva formare operatori culturali ma molti si iscrivevano pensando di diventare registi e attori. Non crede che in passato ci sia stato un grande equivoco? "Sì, può darsi ma molti hanno fatto però gli operatori culturali. E qualcuno anche il regista e l’attore". Che impressione le fa aprire le celebrazioni dei 50 anni di questo corso? "Ne sono piuttosto indegna, avendo frequentato un anno solo. Qualche tempo fa ho tenuto però per un anno un corso di storytelling all’Alma Mater che mi ha riconciliato con la facoltà di Lettere. Ecco, mi sono trovata meglio come insegnante che come alunna ma penso sia un problema mio. Ho parecchi amici che hanno adorato studiare al Dams e ne hanno ricordi favolosi. Poi magari si sono occupati di altro. Una mia amica, che si è laureata qui, cura corsi di formazione ai manager, un’altra è andata a lavorare per una Ong. Io invece ho fatto tanta radio, tv, libri e teatro. Forse una sorta di benedizione il Dams l’ha data anche a me".