
Poliziotti minacciati e aggrediti, delinquenza e mancata prevenzione. D’Amore (Cisl): "Il carcere così sta diventando una scuola di criminalità".
Nel film ‘Il camorrista’, ’o professore - figura ispirata al boss Raffaele Cutolo - dispone affari e decide vita e morte dei nemici dalla sua cella di Poggioreale. Probabilmente i detenuti ospitati alla Dozza non hanno lo stesso spessore criminale del capo della Nco, ma allo stesso modo "spadroneggiano, comandano e quello che vogliono fanno". È allarmante, amaro e rassegnato il quadro che Nicola D’Amore (foto piccola), segretario della Cisl Fp, traccia di cosa è diventata la casa circondariale bolognese. Dopo anni di appelli e di denunce del sovraffollamento cronico; di condizioni ben oltre i limiti dell’umana decenza, di difficoltà da parte del personale, la "Dozza è scoppiata". Non per una rivolta, come quella avvenuta all’alba del Covid a marzo 2020. "Ma per quello che succede ogni giorno nelle sezioni, in particolare al secondo piano del padiglione giudiziario, dove noi agenti non possiamo praticamente più entrare", spiega D’Amore. Che cita quanto avvenuto due giorni fa: "Quattro colleghi, di cui tre nuovi assunti, si sono ritrovati in balìa di 200 detenuti. Tra sputi, minacce, aggressioni. Se non si è in dieci nelle sezioni non si può entrare".
Perché come nel film di Tornatore, a comandare "adesso sono loro. C’è una doppia situazione di criticità: da un lato la microcriminalità, legata al disagio e alla marginalità sociale; dall’altro la delinquenza vera e propria". L’esempio, ancora fresco di cronaca (ma non isolato), è quello di un gruppo di detenuti albanesi, ristretti al secondo piano giudiziario, che "hanno buttato fuori un detenuto che non volevano e, per entrare in un’altra sezione, quest’ultimo ha dovuto chiedere il permesso ad altri detenuti". Gli stessi che "l’altra sera hanno tentato di impedire che entrassimo per effettuare una perquisizione, minacciandoci". Vicende emblematiche dei sistemi di potere che esistono all’interno della Dozza, "dove noi agenti della penitenziaria nulla possiamo, nelle condizioni attuali, per arginare queste dinamiche". Per D’Amore, il "carcere così diventa una palestra di criminalità, perché per sopravvivere i detenuti sono portati a uniformarsi con certi atteggiamenti devianti". E quello che manca, "è una progettualità: noi siamo completamente abbandonati, qui si lavora solo nell’emergenza, non si sa cosa sia l’approccio preventivo – dice ancora il sindacalista –. I ragazzi che arrivano in prima nomina appena entrano si trovano catapultati in una realtà estraniante. Non sono formati adeguatamente; molti non reggono, tanti si congedano. E anche ai vertici manca quell’empatia necessaria per far fronte al disagio dei colleghi. Che non ce la fanno più. In carcere i suicidi sono una emergenza trasversale: di carcere muoiono i detenuti e muoiono i poliziotti".