
Romana Maggiora Vergano e Francesca Comencini sul set
La regista Francesca Comencini arriva questo pomeriggio alle 18 al cinema Modernissimo per presentare con l’attrice protagonista Romana Maggiora Vergano l’anteprima del suo ultimo film ’Il tempo che ci vuole’, prodotto da Marco Bellocchio. "È il racconto molto personale di momenti con mio padre emersi dai ricordi e rimasti vividi e intatti nella mia mente" racconta la regista, figlia di Luigi Comencini.
Signora Comencini, il titolo ’Il tempo che ci vuole’, che sottolinea un privilegio temporale cui sempre meno indulgiamo, è stato una scelta immediata?
"No, perché il titolo per molta parte di scrittura e lavorazione originale è stato ’Prima la vita’, un’altra frase di mio padre. Poi, quando eravamo in fase di montaggio, è apparso questo concetto del tempo così importante, il tempo che ci vuole per acquisire anche la capacità di riuscire a fare questo film, oltre al fatto che il racconto attraversa un tempo molto lungo di un’esistenza, dall’infanzia all’età adulta".
Quarant’anni sono stati ‘il tempo che ci vuole’ dal suo debutto con ’Pianoforte’ del 1984, per parlare della relazione con suo padre in maniera così intima?
"Questà è una cosa importantissima, perché mi ci è voluto tanto tempo. Questo film si basa su ricordi che a un certo punto si sono veramente imposti a me e che ho quasi trascritto dalla mia memoria così come me li ricordavo, anche con una parte trasfigurata perché li ho tenuti dentro di me oltre 50 anni. Non sarei stata in grado di fare questo film, in questo modo, se non fosse trascorso questo tempo che mi ha dato l’agio di aprire un po’ una finestra alla possibilità che in questa storia così personale potessero riconoscersi anche altre persone".
Quanto tempo le ha richiesto la scrittura del film?
"Pochissimo tempo, l’ho scritto durante il lockdown. Forse lo scatto è stata la solitudine in un momento angosciante, che ha portato a un confronto con la quintessenza di noi stessi. Inoltre, il fatto che le sale cinematografiche fossero chiuse in quel momento e che rischiassero di andare perse, mi ha fatto pensare a mio padre, riportandomi all’idea che bisognasse fissare quei ricordi".
Le sue scene, per lo più a due attori, sono scarne e si contrappongono ai set brulicanti di umanità di suo padre Luigi.
"Questa contrapposizione dello scarnificare le scene della vita dentro la casa e renderle quasi astratte, e invece creare questa carnalità sui set, si è imposta immediatamente nella scrittura che le dicevo, perché la memoria procede così. Ti ricordi le cose esagerando un solo aspetto, eliminando tutti gli altri. Ho avuto la fortuna di avere Marco Bellocchio come produttore. Lui ha immediatamente sposato e protetto questa scelta molto ardita, ed è un paradosso alla rovescia".
Perché?
"Perché in questo film in cui si dice ’prima viene la vita e poi il cinema’, succede invece che è proprio sui set cinematografici che si trova la carnalità della vita, in qualche modo. Il cinema è la vita".
Da che pellicola vengono le immagini di apertura e chiusura del film?
"Tutti i film muti citati nel mio lavoro fanno parte del fondo con cui mio padre, insieme a Alberto Lattuada e Mario Ferrari, hanno fondato la Cineteca di Milano. Quel film, salvato dal macero come tanti altri titoli, è ’Dagli Appennini alle Ande’ di Umberto Paradisi del 1916, tratto dal libro Cuore, da cui mio padre avrebbe poi tratto una serie televisiva. C’è anche la citazione di un Pinocchio del 1911 di Giulio Antamoro salvato sempre da mio padre, che poi avrebbe girato la miniserie ’Le avventure di Pinocchio’".