
La scrittrice Silvia Ballestra
Dal Compleanno dell’Iguana del 1991, ’biografia’ di una generazione, con protgonista Antò Lu Purk che da Montesilvano si trasferisce a Bologna in cerca di ragazze, all’ultimo Una notte nella casa delle fiabe, viaggio alla riscoperta dei modelli che ci hanno influenzato fin da bambini, Silvia Ballestra ha sempre messo nei suoi libri quello che conosce bene, trasformandolo in universale. Da quando lasciò la provincia marchigiana per venire a Bologna negli anni Novanta, per poi trasferirsi a Milano dove ancora vive. Sarà alla Mediateca di San Lazzaro stasera alle 21 per la rassegna Vite che sono anche la mia. Autobiografia e immaginazione e domani terrà anche un laboratorio di scrittura.
Vite che sono anche la mia potrebbe essere il titolo di un suo memoir?
"Sì, perché la cosa che mi attira nelle biografie, io ne ho scritte due, quella su Joyce Lussu e quella su Tullio Pericoli, e che caratterizza il lavoro di queste persone e la loro vita, sono anche gli incontri con gli altri, coi luoghi. E quindi raccontando la storia di una persona, si racconta la storia di un’epoca, di un posto e di un contesto anche di gruppi e occasioni".
‘La mia vita è anche quella degli altri’, invece, le risuona?
"Una presenza personale nei miei libri c’è, anche se sempre un po’ mascherata, perché non ho mai usato la mia autobiografia diretta. Si mescola sempre tutto, si prendono alcuni pezzi, si trasfigurano, si fanno anche delle maschere".
Che tratto unisce i suoi libri?
"C’è la mia voce, il mio sguardo, le cose che mi interessano, i temi verso i quali sono più sensibile e che in effetti sono più o meno sempre gli stessi negli anni, anche se cambia lo stile. Le mie storie sono sempre calate nella realtà, nel contemporaneo".
Lei non pare nostalgica.
"No, anzi. Sono molto grata ai miei biografati come Lussu, ma anche Pericoli, che si sono resi disponibili a ripercorrere la loro vita, rispondendo a tante domande. Io ad esempio amo scrivere degli altri, se lo dovessi fare di me avrei dei problemi".
Però non si può non ricordare l’effetto del ’Compleanno dell’iguana’. Quelle storie di fuorisede arrivati dalla provincia e la novità del linguaggio che incorporava anche il dialetto, sono state l’On the road italiano dei ’90. E lei ha rischiato di essere molto giudicata nel portare a galla l’immaginario segreto di quei giovani.
"Si rischiava coi coetanei, ma c’erano fratelli maggiori che venivano da una storia precedente precisa di fermento culturale, Tondelli, Pazienza, Celati, per cui il mio libro fu favorito dall’accoglienza e dal terreno preparato da Canalini, l’editore di Transeuropa morto da poco, che col progetto Under25 faceva un invito ai ragazzi a scrivere. Fu un gesto forte da parte di una generazione vicina che può capirti bene".
L’insegnamento di Tondelli?
"Ci diceva di scrivere di quello che conoscevamo, era un invito a guardarsi attorno. Parli di te, della tua cameretta, sembra paradossale, ma nel farlo sei insieme ad altri e ti trovi per forza in una dimensione generazionale e collettiva".
È importante che ci sia una letteratura generazionale?
"Sì, per andare avanti, per avere voci più fresche, nuove, con più energia, in quegli anni di formazione tutto è esplosivo. Poi certo, il decennio aiutava, perché gli anni Novanta sono stati anni di apertura, novità, speranza".