Simonetta Agnello Hornby: "Perché racconto la mafia"

La scrittrice oggi all’Ambasciatori con l’ultimo libro ’Era un bravo ragazzo’ "La mia Sicilia sembra rassegnata e non mi piace. L’Inghilterra? In degrado".

Simonetta Agnello Hornby: "Perché racconto la mafia"
Simonetta Agnello Hornby: "Perché racconto la mafia"

È una vita sul confine quella di Simonetta Agnello Hornby, fra due isole. Ma quando dice "siamo" fa riferimento alla sua Sicilia, protagonista anche dell’ultimo romanzo, Era un bravo ragazzo (Mondadori), che la scrittrice e avvocatessa– di casa in Inghilterra dal 1972 – presenta oggi alle 18.30 alla Coop Ambasciatori. Fra le pagine, un affresco anche del secolo scorso, i cupi anni Ottanta, "un periodo difficile, penoso per tutta l’Europa", considera l’autrice.

Signora Hornby, in questo volume racconta la storia di due amici, Giovanni e Santino, e delle rispettive famiglie. E si parla in profondità di mafia, più che nei suoi testi precedenti. Perché ora?

"Era il momento di farlo. Perché la mafia c’è ed è rimasta e sembra che la mia isola sia quiescente. Prima c’erano sempre dei pareri, anche sui giornali, ora invece pare che non ci sia altro da fare che lasciarla. É un’accettazione rassegnata e questo non mi piace, perché la mafia non dovrebbe esserci: come è nata, può morire".

È una presenza che lei ha sempre avvertito?

"Io sono nata nel ’45 e la mafia era stata allevata con generosità dagli americani. Il fascismo non l’aveva distrutta, ma l’aveva lasciata muta. Gli americani, invece, si portarono dietro dei capomafia, consci di quello che stavano facendo".

Come ha scelto di raccontare questo aspetto?

"Non ho avuto bisogno di fare ricerche, basta leggere i giornali, capendoli. Racconto storie che si sono sentite tante volte".

Una situazione che potrà mai, realmente, cambiare?

"Non sono un’ottimista, perché gli ottimisti sono grulli. Ma vivo di speranza e ho sempre accettato le difficoltà della vita, anche privata o di avvocato, pensando che si potessero superare. Penso ci possano essere soluzioni: la comitas, l’umilità, l’amicizia verso gli sconosciuti, i diversi, i rifugiati sono una cosa molto importante".

Grande rilievo nel libro hanno come sempre le figure femminili.

"Le due madri che allevano i figli in modo diverso per me sono state interessanti. Spesso la madre siciliana conta molto sul figlio maschio, è possessiva: io ho avuto una madre perfetta, ma non ho avuto fratelli".

Come vede la Sicilia con l’occhio della distanza?

"L’unica cosa che l’Inghilterra e la Sicilia hanno in comune è il fatto di essere isole e gli isolani o si disprezzano o si apprezzano, forse troppo. Sia la Sicilia che l’Inghilterra – che ora è un po’ in degrado – si sentono terre meravigliose e importanti e questo grande amore per la propria terra c’è in entrambe. In Sicilia siamo un’isola, mentre i britannici si sentono un continente".

Come mai parla di degrado? Fa riferimento al periodo post Brexit?

"Io direi gli ultimi trent’anni. La Brexit, come dicono gli inglesi, è the ice on the cake, lo zucchero velato sulla torta. La Gran Bretagna è stata in decadenza da dopo la Guerra; l’uscita dall’Europa, se non è un colpo di morte, è certamente un colpo di trasformazione".

Di che tipo?

"Un Paese in cui la gente non vuole andare, non è più turistico. Ed è rinata, purtroppo, l’arroganza degli inglesi. Poi, speriamo che migliori".

Letizia Gamberini

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