Strage, l’atto d’accusa della Procura generale "Così Bellini fu coperto dal clan familiare"

Le carte su mandanti e organizzatori: "Licio Gelli e i Servizi deviati demolirono le indagini sulla pista neofascista" "L’ex di Avanguardia Nazionale era in stazione". Il ruolo di D’Amato: "Mise a frutto l’oneroso investimento in vista dell’attentato"

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di Nicola Bianchi

"La fase esecutiva della strage di Bologna vede impegnati soggetti provenienti da varie formazioni terroristiche, coagulati in funzione del medesimo obiettivo, alimentati e cementati da un fiume di denaro, elemento unificatore al cospetto del quale evaporano le diversità ideologiche". E in tale contesto "compare sulla scena dell’eccidio Paolo Bellini", il cui spessore delinquienziale "è attestato da un impressionante curriculum che lo vede protagonista sui versanti della criminalità politica, comune ed organizzata, nonché quale personaggio legato ai servizi di intelligence". Sta in queste parole della Procura generale la parte mancante della verità sull’orrore del 2 agosto 1980 alla stazione, il più grande attentato terroristico nella storia democratica italiana: 85 vittime e oltre 200 feriti in cambio di vil denaro. Milioni di dollari sottratti dal Banco Ambrosiano, messi nelle mani di terroristi di destra (Mambro, Fioravanti, Ciavardini e Cavallini, già condannati) dal maestro venerabile della P2 Licio Gelli. Mandante e finanziatore in concorso con il suo braccio destro, Umberto Ortolani, e con il potente prefetto Federico Umberto D’Amato, e il direttore del Borghese Mario Tedeschi (tutti deceduti). Per la prima volta eccole in fila tutte le accuse dei magistrati di Palazzo Baciocchi dell’inchiesta sui mandanti della strage, che l’11 gennaio vedrà il prosieguo dell’udienza preliminare con imputati l’ex primula nera di Avanguardia Nazionale, Paolo Bellini (concorso con i Nar), il generale del Sisde Quintino Spella, il carabiniere Piergiorgio Segatel (entrambi depistaggio) e l’amministratore di condominio Domenico Catracchia (falso).

La memoria. Il lavoro dei magistrati Alberto Candi, Nicola Proto e Umberto Palma, parte dall’arcinoto ’appunto Bologna’ sequestrato a Gelli il 13 settembre 1982 – il cui originale però è spuntato solo nel 2019 dall’Archivio storico di Milano –, con un codice alfanumerico che porterebbe ai conti del piduista e a chiari riferimenti a Bologna.

Per poi virare al più grande dei mali: l’attività di depistaggio. "Di natura giornalistica" da parte di Tedeschi, "a libro paga" di Gelli e dei Servizi dai quali ricevette "60 milioni di lire"; autore di "una campagna di stampa a favore del Sismi, volta a demolire le indagini orientate sulla pista neofascista". E "mediante la cosiddetta operazione ‘terrore sui treni’ che determinò, il 13 gennaio 1981, il sequestro sul Taranto-Milano di una valigia con armi ed esplosivo dello stesso tipo utilizzato per la strage e documenti che indirizzarono verso la falsa pista internazionale".

Sbirro gourmet. Ruolo primario, per la Pg, è quello di Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati, lo Zaff dei documenti sequestrati per la sua passione per lo zafferano, "persona più adatta e affidabile, agli occhi di Gelli, per mettere a frutto l’oneroso investimento strategico di 850mila dollari" in vista dell’attentato. Un progetto che in origine prevedeva "necessariamente l’appoggio di apparati infedeli dei Servizi, in seno ai quali l’esponente più influente, qualificato e di maggior potere era, senza dubbio, il piduista D’Amato". Principale "raccordo tra i finanziatori e i Servizi deviati che assicurarono copertura agli esecutori materiali del crimine; logica vuole che al lucroso progetto prendessero parte anche persone di Avanguardia Nazionale".

Ecco Avanguardia. Il movimento di estrema destra, per i magistrati, rappresenterebbe "l’anello di congiunzione tra il vertice finanziario-organizzativo della strage, costituito dal binomio piduista Gelli-D’Amato e la figura di Paolo Bellini". Il leader assoluto era Stefano delle Chiaie, vicinissimo a D’Amato ("suo confidente e infiltrato") e alla Divisione Affari Riservati del ministero ("Delle Chiaie transitava per gli uffici come fosse a casa sua..."), agevolato "nel rilascio di passaporti e quant’altro", benefit estesi pure "a qualche amico dell’estremismo".

Quinto uomo. E di Avanguardia, almeno fino a novembre 1976, faceva parte Paolo Bellini, l’aviere reggiano prosciolto nel 1992 dall’accusa di concorso in strage, nuovamente nei guai con stessa imputazione dal 2019. Contro di lui un filmato amatoriale che lo riprenderebbe alla stazione il 2 agosto, una catenina, le parole del leader di Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi ("un aviere portò la bomba a Bologna"). Poi il riconoscimento dell’ex moglie Maurizia Bonini e una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali della famiglia, definita un vero e proprio "clan", capace di creare "una rete di protezione saldissima" attorno a Bellini, e che vide "particolarmente attivo il padre Aldo". L’alibi attorno a Paolo Bellini – alias Roberto Da Silva, che raccontò che il 2 agosto 1980 si trovava in vacanza con i parenti a Passo del Tonale – "fu costruito, in un contesto dichiarativo familiare compiacente, caratterizzato da palesi menzogne, reiterate all’unisono anche in presenza di evidenze probatorie di segno contrario". Dietro a quel "paravento", però, emerse tutta "la grave preoccupazione collettiva dei suoi familiari per l’inevitabile discredito derivante da un eventuale accertamento della responsabilità del loro congiunto per la strage".

"Noi, vittime". E’ il 2 agosto 2019, nella sala d’attesa della Stradale di Modena, subito dopo l’audizione di Maurizia Bonini, la nipote Daniela non esita a manifestare "il suo disappunto perché la zia ha dichiarato ai magistrati che l’immagine del sospettato pubblicata sui giornali è di uno che somiglia a suo marito Paolo". Così Daniela: "Io appena posso comunque me ne vado dall’Italia, chi si è visto si è visto...". Molto interessante, per l’accusa, anche quella del 4 agosto 2019 tra Maurizia Bonini e la figlia Silvia. M.: "Sotto sotto ah, metto la testa sotto il cuscino e non esco più di casa...". S.: "No, io ci esco, perché io sono una vittima come tutti gli altri. Punto". M. "Va bene così, dai". S.: "Cosa vuoi che ti dica è la verità, anche noi siamo vittime come gli altri di quell’uomo lì". Maurizia Bonini, dopo essere stata indagata per falso il 2 agosto 2019 sulla base di un colloquio animato con il figlio Guido ("lui era a Bologna, è dimostrato") dove lei riconosceva l’ex marito, fu interrogata il 12 novembre dello stesso anno: "Ho visto il video, la persona ritratta è il mio ex marito". Poi aggiunse: "Purtroppo è lui. Attaccato alla catenina mi pare ci sia un crocefisso". Un dato probatorio, secondo i magistrati, "di assoluto rilievo a carico dell’imputato".

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