GABRIELE PAPI
Cronaca

Aringa affumicata: da cibo povero a prelibatezza gourmet a 40 euro al kg

L'aringa affumicata, un tempo cibo povero, oggi è considerata una prelibatezza gourmet con prezzi elevati nei supermercati.

‘La magnèda purèta’, opera del pittore romagnolo Antonio Farneti

‘La magnèda purèta’, opera del pittore romagnolo Antonio Farneti

La ‘renga’, l’aringa. Ieri mangiare a buon mercato, cibo da ‘purètt’, da poveri. Oggi, l’aringa affumicata viaggia verso i 40 euro al kg al supermercato, elegante confezione sottovuoto. Categoria: cibo da ‘gourmet’, parolina oggi di gran moda, utile a far salire i prezzi di vivande un tempo popolari, con conseguenti porzioni da villaggio degli gnomi nei ristoranti pretenziosi. Perdonateci l’ironia. Del resto, la ‘renga’, l’aringa è già stata protagonista di storiche irriverenze.

Scritte beffarde apparvero sui muri della nostra Cesena ai tempi della dominazione pontificia, nel lontano 1829: ’Non più Saracche, non più Renga. Non più papa della Genga’: da Roma era rimbalzata la notizia della scomparsa di papa Leone XII (al secolo conte Della Genga) detestato da buona parte dei cesenati: quattro anni prima il suo pontificato aveva decretato la condanna a morte in Roma di Leonida Montanari, medico cesenate e di Angelo Targhini (di madre cesenate) in quanto ‘carbonari’ e libertari, dunque sovversivi. Ma questa è un’altra storia.

Le saracche (o salacche) erano pesci non pregiati, sotto sale o grossolanamente affumicati, che insieme alla aringhe comparivano spesso in passato nelle povere tavole del popolo. ‘Renga arscaldèda e saraca brusèda’ (aringa riscaldata e saracca bruciacchiata) era un popolare modo di dire che ormai appartiene solo ai dizionari romagnolo-italiano. Ma era anche un consiglio per rendere un po’più commestibili questi cibi dal sapore acre e troppo pungente di sale.

Circola invece ancora, tra i cesenati d’una certa età, la storiella dell’aringa appesa a un filo sulla tavola con i commensali che a turno vi sfregavano il pane, per carpirne per un po’ di sapore. Di vero c’è che l’aringa aiutava a riempirsi lo stomaco di pane.

Le aringhe in vendita si dividevano in aringhe da uova, le femmine, e da latte cioè i maschi. Proprio tenere per le aringhe a mollo nel latte (o almeno toglierne la pelle) e riscaldarle erano modi per attenuare il sentore prepotente, di per se stesso non piacevole: tipico di questo cibo invernale che spesso era accompagnato da cipolle o da fagioli, come suggerisce anche il bel dipinto del pittore forlivese Antonio Farneti (1886-1981), tavola romagnola, immagine di corredo a questo nostro articolo.

Chi è nato ancora negli anni ‘50 - ‘60 ricorderà le suggestive e odorose botteghe in via Pescheria specializzate tra l’altro in aringhe, stoccafisso e baccalà, quest’ultimo a mollo continuo nelle mastelle con la cannella dell’acqua corrente: anche il baccalà, epopea del cibo popolare (ai ferri, in umido) oggi ha raggiunto prezzi stellari o quasi.

Infine, tornando all’aringa, ecco una gustosa citazione da un famoso film di ieri: ‘Grand Hotel’ (con Greta Garbo). Laddove, nel film, una ragazza (Joan Crawford) respinge e beffa le lusinghe d’un corteggiatore che per stupirla e per sedurla le offre caviale, a tavola: ‘il caviale ve lo lascio. Sa di aringa’. Volendo, una battuta così sarebbe un divertente contropiede anche nell’odierno e uggioso dibattito politico, tra la destra smaniosa e la sinistra cosiddetta ‘al caviale’: se solo prevalesse un pizzico di civile ironia rispetto ai soliti ritornelli che hanno stufato molti elettori.