
‘La magnèda purèta’, opera del pittore romagnolo Antonio Farneti
La ‘renga’, l’aringa. Ieri mangiare a buon mercato, cibo da ‘purètt’, da poveri. Oggi, l’aringa affumicata viaggia verso i 40 euro al kg al supermercato, elegante confezione sottovuoto. Categoria: cibo da ‘gourmet’, parolina oggi di gran moda, utile a far salire i prezzi di vivande un tempo popolari, con conseguenti porzioni da villaggio degli gnomi nei ristoranti pretenziosi. Perdonateci l’ironia. Del resto, la ‘renga’, l’aringa è già stata protagonista di storiche irriverenze.
Scritte beffarde apparvero sui muri della nostra Cesena ai tempi della dominazione pontificia, nel lontano 1829: ’Non più Saracche, non più Renga. Non più papa della Genga’: da Roma era rimbalzata la notizia della scomparsa di papa Leone XII (al secolo conte Della Genga) detestato da buona parte dei cesenati: quattro anni prima il suo pontificato aveva decretato la condanna a morte in Roma di Leonida Montanari, medico cesenate e di Angelo Targhini (di madre cesenate) in quanto ‘carbonari’ e libertari, dunque sovversivi. Ma questa è un’altra storia.
Le saracche (o salacche) erano pesci non pregiati, sotto sale o grossolanamente affumicati, che insieme alla aringhe comparivano spesso in passato nelle povere tavole del popolo. ‘Renga arscaldèda e saraca brusèda’ (aringa riscaldata e saracca bruciacchiata) era un popolare modo di dire che ormai appartiene solo ai dizionari romagnolo-italiano. Ma era anche un consiglio per rendere un po’più commestibili questi cibi dal sapore acre e troppo pungente di sale.
Circola invece ancora, tra i cesenati d’una certa età, la storiella dell’aringa appesa a un filo sulla tavola con i commensali che a turno vi sfregavano il pane, per carpirne per un po’ di sapore. Di vero c’è che l’aringa aiutava a riempirsi lo stomaco di pane.
Le aringhe in vendita si dividevano in aringhe da uova, le femmine, e da latte cioè i maschi. Proprio tenere per le aringhe a mollo nel latte (o almeno toglierne la pelle) e riscaldarle erano modi per attenuare il sentore prepotente, di per se stesso non piacevole: tipico di questo cibo invernale che spesso era accompagnato da cipolle o da fagioli, come suggerisce anche il bel dipinto del pittore forlivese Antonio Farneti (1886-1981), tavola romagnola, immagine di corredo a questo nostro articolo.
Chi è nato ancora negli anni ‘50 - ‘60 ricorderà le suggestive e odorose botteghe in via Pescheria specializzate tra l’altro in aringhe, stoccafisso e baccalà, quest’ultimo a mollo continuo nelle mastelle con la cannella dell’acqua corrente: anche il baccalà, epopea del cibo popolare (ai ferri, in umido) oggi ha raggiunto prezzi stellari o quasi.
Infine, tornando all’aringa, ecco una gustosa citazione da un famoso film di ieri: ‘Grand Hotel’ (con Greta Garbo). Laddove, nel film, una ragazza (Joan Crawford) respinge e beffa le lusinghe d’un corteggiatore che per stupirla e per sedurla le offre caviale, a tavola: ‘il caviale ve lo lascio. Sa di aringa’. Volendo, una battuta così sarebbe un divertente contropiede anche nell’odierno e uggioso dibattito politico, tra la destra smaniosa e la sinistra cosiddetta ‘al caviale’: se solo prevalesse un pizzico di civile ironia rispetto ai soliti ritornelli che hanno stufato molti elettori.