"Federer un ’Papa umile’ che ha cambiato il tennis"

Il giornalista Vanni Gibertini racconta il campione di cui ha scritto per anni

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di Alessandro Trebbi

È la notizia del momento, forse quella dell’anno o del secolo, da un punto di vista sportivo: Roger Federer non giocherà più. Una notizia che ha scosso tutto il mondo, compreso il giornalista modenese Vanni Gibertini, cronista privilegiato (e molto bravo, va aggiunto) che ha avuto la fortuna di seguirne e raccontarne la parabola dai bordo campo di mezzo mondo negli ultimi dieci anni. "Quando perse 6-0 quell’ultimo set contro Hurkacz che lo eliminò dal Wimbledon 2021, la sensazione che potesse essere l’ultima volta c’era tutta, sulle tribune". Classe 1974, la storia di Gibertini è quella di un grande appassionato di racchette ("avevo dieci anni quando iniziai a seguire Wimbledon") che dal 2010 ha viaggiato tutti i continenti per Ubitennis, il sito di Ubaldo Scanagatta del quale ora è vice-direttore. "Ho coperto 21 Slam e due Olimpiadi dal 2011 a oggi" racconta.

Quale la caratteristica unica che subito colpiva di Federer? "Una volta un amico descrisse il capolavoro di Ridley Scott, ‘Il Gladiatore’, come un film nel quale si può fermare la proiezione in qualunque momento e si ottiene sempre una fotografia perfetta. Federer era più o meno la stessa cosa".

Anche qualche difetto, però? "Capitava spesso che partisse a razzo e la partita era finita prima che l’avversario potesse accorgersene. Ma nelle maratone era leggendaria la sua pessima percentuale di conversione di palle break, mentre in carriera ha perso 23 partite pur avendo match point a favore".

Fuori dal campo, che Roger ha conosciuto?

"Una personalità quasi più importante del tennis stesso, anche se si accaniva a dimostrare il contrario. Ho preso a soprannominarlo ‘il Papa’, perché davvero la maniera in cui i fan giubilavano in sua presenza, e la maniera nella quale si comportava, ricordavano il pontefice".

C’è un aneddoto particolare che rammenta?

"Ognuno dei giornalisti che abitualmente segue il tennis ha una ‘Federer story’. Nel mio caso, la Laver Cup del 2018 a Chicago. Mentre provavo a orientarmi nei meandri dello United Center l’ho incrociato: cercava una stanza adatta per un’intervista a Usa Today. Era lui che guidava la ricerca, apriva porte a destra e sinistra. Lo faceva con naturalezza e umiltà incredibili, come la ‘rezdora’ che accoglie gli ospiti per la cena mentre ha ancora il grembiule addosso". Che eredità lascia?

"Quella di aver portato il tennis a un livello mainstream che mai era stato raggiunto prima. In più ha alzato l’asticella in maniera tale da lanciare la folle corsa dei Big 3 che hanno cannibalizzato gli ultimi 15 anni di tennis: 62 degli ultimi 75 Slam sono stati vinti da Federer, Nadal e Djokovic". Non sarà un peso per le nuove generazioni?

"C’è il rischio che tutti i giocatori del futuro vengano paragonati ai Big 3 e misurati con un metro totalmente irrealistico".

Ricorda alcune interviste particolari?

"L’intervista che mi è rimasta più impressa è stata dopo il ’Match for Africa 4’ a Seattle. Ci dissero di parlare con Federer direttamente in campo, finiti gli incontri. Siamo andati in tre all’altezza della linea del servizio, è arrivato e guardandomi intorno mi sono reso conto dell’assedio sotto il quale vive perennemente, tra richieste e urla dei fan. Non so come faccia".

Un match che ricorda in particolare?

"Tra quelli seguiti dal vivo, la finale del torneo di Shanghai del 2017 nella quale ha battuto Nadal. Avevo visto altre sfide tra loro, ma toccare con mano la venerazione con cui entrambi erano trattati anche in Cina mi ha fatto davvero capire la loro grandezza".